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UNA SCELTA RESPONSABILE

Pubblicato in https://www.vinonuovo.it/comunita/bibbia-e-liturgia/una-scelta-responsabile/

Nelle scorse settimane i media hanno imperversato nel presentare, a partire da Rai Uno, la scelta di un parroco umbro, Riccardo Ceccobelli, che ha comunicato pubblicamente di aver deciso di lasciare il ministero perché innamorato di una donna.

Ceccobelli non è né il primo né sarà l’ultimo ad arrivare a questa scelta, anche se normalmente questo avviene nella discrezione e nel silenzio, piuttosto che sotto i riflettori.

I gestori della comunicazione sanno che questo è un tema che fa audience e la martellante ripresa della notizia durata per oltre una settimana dimostra che su vicende come questa il dibattito è sempre vivo; tuttavia sarebbe utile uscire dall’alternativa delle posizioni di chi si schiera a favore o contro la scelta del celibato.

Come sappiamo Papa Francesco si è espresso in maniera esplicita a favore del mantenimento dell’attuale prassi.

Dunque, prima di fare indagini sulle opinioni, riferiamoci a ciò che ritiene la normativa giuridica.

È vero che i candidati a ricevere il sacramento dell’Ordine sono chiamati ad accogliere e ad accettare, all’interno della Chiesa Cattolica di Rito Romano, la promessa di celibato, prima della ordinazione diaconale.

È vero che, come alcuni sottolineano, la loro scelta è assunta in maniera libera e non certo coercitiva, se non altro perché si sono preparati a questo passo attraverso sei anni di percorso vissuti in un Seminario Teologico.

Queste promesse vengono in maniera solenne rinnovate ogni anno da tutti i sacerdoti incardinati in una diocesi, durante la Messa Crismale presieduta dal Vescovo, secondo l’uso più diffuso, la mattina del Giovedì Santo.

Bisogna evidenziare che è improprio porre un paragone tra le promesse pronunciate dai candidati prima di ricevere il sacramento dell’Ordine e quelle pronunciate dai fidanzati che si uniscono nel sacramento del Matrimonio.

Secondo la teologia cattolica i tre sacramenti che imprimono il cosiddetto “carattere” e non possono dunque mai essere reiterati, sono i sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell’Ordine.

Nella celebrazione dei due sacramenti dell’iniziazione come in quello dell’Ordine, l’uso dell’olio del crisma, “significa” la speciale unzione dello Spirito Santo, che “segna”, “sigilla”, “prende dimora” in colui/colei che lo riceve.

Particolare poi l’unzione nel grado del presbiterato dove, invece del segno della croce che avviene sulla fronte nel Battesimo e nella Cresima, al novello sacerdote viene unto tutto il palmo della mano, attraverso il cui uso egli amministrerà i sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione; mentre al presbitero che accede al terzo grado dell’Ordine, l’episcopato, viene unto il capo intero, visto che al servizio della sua guida, come vescovo, sarà affidata l’intera Chiesa locale, individuata giuridicamente nel territorio di una diocesi.

Come detto, Battesimo, Cresima e Ordine, i sacramenti che “imprimono il carattere”, non possono mai essere reiterati: non si può essere battezzati una seconda volta; la stessa Chiesa Cattolica che accoglie al suo interno fedeli provenienti da altre Chiese riconosce la validità del loro battesimo, senza ripeterlo.

Così come, quando un fedele che deve assumere il ruolo di “padrino” e, dovendo produrre il certificato di Cresima, riceve la notizia che c’è stato un incendio e sono andati persi i registri cartacei che ne riportano la ricezione, dovrà, insieme col parroco, produrre una testimonianza della Cresima avvenuta, non potendo in alcun modo ripeterla.

Gli altri sacramenti possono invece essere reiterati, la ricezione dell’Eucaristia e della Riconciliazione, quella dell’Unzione degli infermi che può essere ripetuta a seconda delle necessità e, infine, il matrimonio in caso di vedovanza.

Torniamo alla nostra questione.

Il coniuge che pronuncia la sua promessa di fedeltà e riconosce la indissolubilità del suo vincolo matrimoniale, nel momento in cui viene meno a tutto questo pone in essere una situazione che può portare alla rottura del suo matrimonio, attraverso il percorso che sfoci in una separazione o in un divorzio.

Il presbitero o l’episcopo o il diacono che chiedano alla Chiesa di essere dispensati dalla promessa del celibato non pongono in essere la fine del sacramento che, come detto, è ritenuto indelebile dalla teologia cattolica e che, dunque, rimarrà fino alla morte; tant’è che lo stesso Codice di diritto Canonico (cfr. CJC, cann. 976, 986,2) chiede al ministro che sia stato sospeso dall’esercizio del ministero di esercitare il ministero stesso, in casi di necessità quali l’amministrazione dei sacramenti ad un moribondo in assenza di un ministro in esercizio.

Quindi, riassumendo: il coniuge che tradisce suo marito o sua moglie, che risulta infedele alle sue promesse, che arriva ad una decisione di separazione, rompe il vincolo sacramentale e si pone fuori del matrimonio stesso. La Chiesa Cattolica ritiene che tali scelte portino ad una uscita dalla comunione ecclesiale, e per questo motivo (eccettuato la dichiarazione nullità del sacramento riconosciuta dopo un processo canonico) un coniuge che si sposa nuovamente con rito civile dopo un divorzio si dispone che non possa accostarsi ai sacramenti.

Il ministro che decide di sposarsi è invece riconosciuto, dopo il discernimento della Chiesa, libero di farlo.

Egli non ha, propriamente, rinnegato le sue promesse o tradito la sua missione, perché la sua domanda non è quella di lasciare il ministero e di abbandonare le persone che gli sono state affidate.

Non è, dunque, infedele alla stessa maniera di quella che potrebbe essere una infedeltà vissuta tra coniugi.

La sua non è una “infedeltà” ma una “onestà”, perché si rivolge al discernimento della Chiesa per chiedere di essere dispensato dalla sua promessa di celibato, piuttosto che continuare a prometterlo senza più avere in cuore e nella mente di riconoscerlo come un proprio “carisma”. Nel momento in cui la Chiesa accoglie la sua domanda e la riconosce legittima, egli lascia l’esercizio del ministero in rispetto della legge che la Chiesa stessa si è data, quella di servirsi solo di ministri che siano e rimangano celibi.

In merito  al dibattito inerente l’opportunità o meno di cambiare la legge rendendo la scelta del celibato facoltativa e non più obbligatoria, è indubbiamente un passo  non  facile da compiere, dato che si tratta di una legge che ha un millennio di storia; le motivazioni, a mio modo di vedere, non dovrebbero riguardare la necessità di promozione numerica delle vocazioni, quanto l’onestà di dare una luce di verità su tante situazioni.

Certamente un ministro sposato non è migliore di uno che rimanga celibe, e viceversa.

Ognuno ha la sua storia, ognuno deve essere responsabile delle sue scelte.

Una rivisitazione della norma dovrebbe essere motivata da una precisa attenzione a voler fare ordine, dare responsabilità, aiutare ad illuminare nella verità la vita di tutti quei ministri, di tutti quei consacrati, di tutti quei religiosi e quelle religiose che vivono le promesse e i voti a suo tempo pronunciati, non più come una occasione di fecondità ma come la negazione dello stesso percorso vocazionale intrapreso anche da anni e da decenni.

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