Categorie
Costruttori di ponti

Il Rapporto Raleigh – Newsletter mensile del CEO di ACLED, Prof. Clionadh Raleigh – settembre 2025

lun 15 set, 16:16

Cari lettori,

“Abbasso questo genere di cose.”

Volevo fare un piccolo bilancio della nostra situazione in termini di “comunità in conflitto” (che espressione terribile) e, più in generale, di conflitti veri e propri, mentre ci avviamo verso l’ultima parte di un anno davvero eccezionale. Stiamo affrontando continui conflitti di vasta portata e guerre più piccole, attacchi terroristici intermittenti, licenziamenti ingenti, malcontento economico e politico, governi in caduta/instabilità, omicidi sanzionati dallo Stato e un’enorme crescita della violenza statale, gruppi dello Stato Islamico (IS) in ripresa e una sfiducia diffusa nella classe politica e nei sistemi. Queste avversità non sono iniziate a gennaio e non sono affatto vicine alla fine. La durezza dell’anno e le sue conseguenze hanno fatto emergere alcune riflessioni:

  1. Nonostante un’intera classe di ONG e ONG internazionali operi partendo dal presupposto che esista una “responsabilità globale” in merito ai conflitti https://www.nytimes.com/2025/09/11/us/politics/trump-gaza-ukraine-peace.html, alle loro vittime https://www.ohchr.org/en/press-releases/2025/09/war-atrocities-sudan-civilians-deliberately-targeted-un-fact-finding-mission e alla loro mitigazione, non esiste.
  2. Molti gruppi della società civile, e spesso molti governi, promuovono la “pace” come obiettivo per le politiche e le pratiche, nonostante la “pace” sia ciò su cui abbiamo meno influenza. Non ci sono abbastanza strumenti al mondo per risolvere questo problema.
  3. Il pubblico delle politiche e delle discussioni sui conflitti/pace è raramente costituito da persone, governi o gruppi armati in conflitto. Il divario tra il pubblico della politica estera (ristretti gruppi di interesse interni e coloro che elaborano le politiche sui conflitti) e i “destinatari”, ovvero coloro che sono in crisi, è il motivo per cui i programmi di contrasto ai conflitti che si appellano alle preferenze delle élite nazionali (occidentali) (ad esempio, clima, genere, salute) non sono riusciti a gestire alcun modello di conflitto. Ora quelle politiche non esistono più, e verrà messo a nudo quanto i governi diano valore a popolazioni stabili e sane. Ma i modelli di conflitto non cambieranno.
  4. Il nesso Umanitario-Sviluppo-Pace (HDP) non tornerà. Avete partecipato a tutti quei corsi di formazione per niente. È molto probabile che una parte significativa del lavoro umanitario venga privatizzata https://www.weforum.org/stories/2025/05/humanitarian-response-private-sector/, restringendone drasticamente la portata e riducendone i costi. Da un lato, questo potrebbe essere sostenibile in un modo che il sistema recente non lo era affatto, https://unric.org/en/humanitarian-aid-the-most-vulnerable-already-severely-impacted-by-budget-cuts/ ma soprattutto perché il mandato è più limitato.
  5. Laddove le aziende private colmino le lacune umanitarie, l’attenzione sarà rivolta alla massimizzazione della distribuzione, delle operazioni e dell’utilità. È piuttosto difficile opporsi a questa affermazione a favore di una messa in discussione filosofica dell’utilitarismo o dell’etica dell’industria privata. Allo stesso modo, alcune “soluzioni umanitarie basate sull’intelligenza artificiale” del settore privato mi fanno venire i brividi, così come la militarizzazione degli aiuti. Ma chi sarà un onesto mediatore sull’efficacia di questo approccio rispetto al settore pubblico e all’istituzionalismo internazionale?
  6. Nella sfida tra guerra e welfare, la guerra vincerà sempre. I governi continueranno a tagliare i finanziamenti per lo sviluppo (quelli legati al “welfare” in contesti di crisi) e a investire di più nella difesa.

L’unica cosa cruda di questo post è la pretesa che ci sia ancora una scelta da fare.

  • Ci sono tutte le ragioni per aspettarsi che la diplomazia, i negoziati e l’impegno per la pace saranno attivamente ridotti, man mano che i paesi decidono che “stabilizzazione” e “cooperazione” https://www.consilium.europa.eu/en/policies/defence-numbers/ sono costose e inefficaci, laddove i bombardamenti non lo sono. La prova sta nel dove la maggior parte dei governi investe i propri soldi, e dove alcuni governi piazzano le loro bombe: nemmeno il Qatar è sfuggito al nuovo ordine mondiale https://www.theatlantic.com/international/archive/2025/09/israel-qatar-hamas-assassination-gaza-peace-hostages/684149/!
  • I paesi colpiti dalla crisi vogliono livelli di conflitto controllabili. Ciò significa che ci saranno molti più conflitti regionali e l’emergere di egemoni, nonché un costante aumento della violenza statale. I lettori abituali ricorderanno che sono una scettica nei confronti dei conflitti legati allo sviluppo. In quest’ottica, mentre una riduzione dei finanziamenti per lo sviluppo non aumenterà i conflitti, una maggiore spesa per la difesa e la guerra sì: queste armi non dovrebbero restare in garage. Questi cambiamenti esacerberanno i cambiamenti già in atto: più violenza statale nei territori nazionali e più violenza egemonica regionale nei paesi confinanti. Per quei governi che si sono sentiti limitati dall’ordine liberale occidentale, la riduzione dei finanziamenti è stata sostituita da una minore supervisione (è come una perversione del modello cinese, che è “più soldi, meno supervisione, ma non combinare guai”). Ed è molto più facile combattere una guerra quando non si deve rispondere delle morti dei civili.
  • Questo significa di fatto una scarsa influenza delle attuali potenze egemoniche (o un atteggiamento di non intervento) sulle attività delle “potenze medie”. Forse pensate che mi riferisca alle “periferie”: non è così. È improbabile che il nuovo ordine mondiale (quando emergerà) riconosca le periferie come abbiamo fatto in passato. Tutti i vicini ora sono importanti; tutti si contendono il loro posto al tavolo. Ci saranno alcuni scontri di autorità regionali (India e Cina, Sudafrica e Nigeria, Vietnam e Filippine), che determineranno la stabilità delle regioni.

__________________________________________________________

Note e nozioni

La Grande Diga della Rinascita Etiope (GERD) è aperta e funzionante! Da ottimista etiope, ne sono felicissima. In effetti, l’entusiasmo che ha accompagnato la costruzione di questa diga mi ha fatto riflettere sull’onestà di alcuni media nel riportare la notizia: gran parte del sentimento anti-etiope era sfacciato e infondato. Gli articoli di giornale https://www.nature.com/articles/s43247-024-01821-w sulla GERD erano molto più ragionevoli https://www.nature.com/articles/s41467-021-25877-w?fromPaywallRec=false e positivi sul suo impatto complessivo  https://www.nature.com/articles/s41467-020-19089-x?fromPaywallRec=false (si consideri la figura 7). Quando i miei figli frequentavano una scuola elementare etiope, un giorno tornarono a casa con una lettera in cui si chiedeva un contributo per la GERD. Il governo etiope si stava impegnando molto per farne un progetto nazionale, in cui tutti si sentissero partecipi del suo successo. Spero vivamente che raggiunga l’impatto previsto https://www.theatlantic.com/international/archive/2025/09/israel-qatar-hamas-assassination-gaza-peace-hostages/684149/.

Questa è una delle migliori idee che abbia mai sentito https://www.nytimes.com/2025/08/20/climate/maine-library-of-things.html. Questa è un’altra https://www.nytimes.com/2025/08/26/opinion/culture/ai-chatgpt-college-cheating-medieval.html?smid=nytcore-ios-share&referringSource=articleShare  (e una collina su cui morirò).

Biblioteche, libri d’esame, giornali, telefoni fissi e giochi all’aperto! Benvenuti nel futuro!

“Questo non è il Vietnam. Ci sono delle regole.” La prova più importante per l’amicizia è quando si incontra Walter https://www.theatlantic.com/family/archive/2025/09/friends-movies-big-lebowski/683932/. Questa scena https://www.youtube.com/watch?v=KcCpnLbrJRk mi ricorda le chiacchierate con la mia futura co-conduttrice del podcast, Cait (è lei la persona ragionevole in queste discussioni).

In realtà, a proposito di amici, questo racconto di David Sedaris https://www.bbc.co.uk/programmes/m002bswz è così doloroso e adorabile: una riflessione sui giovani amici e sulle lunghe vite. Tutti i suoi racconti recenti sono stati così. Quando mi viene in mente un racconto piuttosto recente su un agnello https://www.newyorker.com/magazine/2023/11/27/the-violence-of-the-rams in un campo, ricordare l’ultima riga è come ricevere una pugnalata allo stomaco.

Durante l’estate, ho ascoltato questo eccellente e schiacciante lungo saggio di Michael Lewis https://www.audible.com/pd/Playing-to-Win-Audiobook/B08DL85L6X?srsltid=AfmBOopYhwlTEppwKuhse0CKSL_2z8o7rh6o6IC6NS5zKUiQpM71FDV2. Se anche voi siete genitori che hanno perso la testa per quanto riguarda gli sport per bambini, ascoltatelo con vergogna e riconoscenza.

Uno dei lati positivi di questa distruzione è che forse ora possiamo davvero smettere di usare parole ridicole e orribili come “stakeholder” o “impatto”. Altri sembrano pronti a sovvertire “empowerment”, “responsabilità”, “ground truthed” o “mission-driven”. Ma niente mi fa più arrabbiare delle “imparate”. Mi fa davvero arrabbiare sentirlo. Per l’amor di Dio, la parola è lezioni! E, come sottolinea questa persona https://frompoverty.oxfam.org.uk/which-awful-devspeak-words-should-we-ban-your-chance-to-vote/, “Quando mai cibo, acqua e riparo sono diventati così complicati?”

Webinar ACLED

La svolta dello Stato Islamico verso l’Africa

L’11 settembre ho moderato un webinar con esperti ACLED su Somalia, Sahel, Bacino del Lago Ciad, Regione dei Grandi Laghi e Mozambico settentrionale, mentre esploravano come l’ISIS stia sempre più spostando le sue operazioni verso l’Africa. Hanno analizzato come gli affiliati dell’ISIS operano in Africa, quali sono i loro legami con l’ISIS Centrale e come i civili stanno pagando il prezzo delle loro ambizioni territoriali. Questo avviene mentre ACLED registra oltre due terzi delle attività globali dell’ISIS nella prima metà del 2025 nel continente. Se ve lo siete perso, potete guardare la registrazione https://frompoverty.oxfam.org.uk/which-awful-devspeak-words-should-we-ban-your-chance-to-vote/ del webinar. Ne avremo presto un altro, perché c’è così tanto di cui discutere!

Seleziona ACLED nei media!

Prof. Clionadh Raleigh, CEO

ACLED (Armed Conflict Location & Event Data)

Categorie
Costruttori di ponti

Cultura e cinema ai tempi della destra

Alla Festa del Fatto Quotidiano 2025 al Circo Massimo il 14 settembre si è svolto un dibattito con Marco Bellocchio, Alessandro Giuli, Andrea Occhipinti, moderato da Thomas Mackinson e Paola Zanca

Zanca: “Maestro Bellocchio, partiamo da Venezia e dallo stop ai due attori ebrei. Qual’è il suo pensiero?”

Bellocchio: “Ho aderito alla manifestazione per Gaza. Ma non allo sbarramento verso gli artisti ebrei. Non posso boicottare artisti israeliani che non conosco. Ogni atteggiamento di violenza è perdente. In questo senso ritengo che la Flottiglia che va verso chi muore porta un messaggio di grande solidarietà. Trovo che sia un’iniziativa direi eroica senza alcuna retorica”

Mackinson: “Ministro Giuli mi riallaccio a Venezia e a Gaza le chiedo se genocidio è un termine appropriato”.

Giuli: “Le parole pesano. Io guarderei alla sostanza. Il termine ha un’universo di senso. La penso come Liliana Segre che dice che il genocidio e l’Ocausto vada lasciato lì dov’è. Esorto me stesso e tutti noi a non perderci dietro i termini. Sulla Flottiglia devo avere un posizione istituzionale. Penso che abbia un valore simbolico importantissimo. Penso che non avrà un successo oggettivo. Penso che una pressione dell’opinione pubblica sulle istituzioni sia importante”.

Mackinson: “Cosa ci dice dell’accusa che sta ritenendo le opposizioni esponsabili dell’istigazione all’odio, al punto che si evoca il rischio di tornare alla stagione delle BR?”

Giuli: “Penso che i politici ma anche la società civile devono fare la loro parte. Purtroppo il dialogo tra politica e società civile è uscita dai giusti binari.  I social network più delle volte sono deleteri. Preannunciare il ritorno delle BR può essere un modo per prevenirle. Vi assicuro che allarmare sulla necessità di non alimentare il clima d’odio sia fondamentale. Invitare a tenere alta la soglia dell’attenzione alto sulla degenerazione nella violenza è importante. Vi assicuro che i politici tra di loro si parlano spesso, anche dietro i riflettori. Il dialogo e il confronto c’è più di quanto appaia”.

Zanca: “Andrea Occhipinti da attore ha fondato la Lucky Red che ora lavora tantissimo. Anche il film che ha vinto a Venezia è vostro. Cosa ci dice sui finanziamenti israeliani al film? MUBI è una piattaforma che ha legami con il governo israeliano. Per fare film si prendono dei soldi e i soldi sono sempre sporchi. Come si coniuga il tema dell’etica?”

Occhipinti:  “È un tema complicato. Jarmush ha detto che quando ha iniziato non sapeva di questi finanziamenti. Uno di questi finanziatori è il padrone di una società che costruisce droni per Israele. Si attinge a fondi statali nazionali.

Siamo stati anche invitati al Festival di Haifa e anche a quello di San Pietroburgo ma abbiamo deciso di non partecipare ad entrambi.

Alla fine GERALD BUTLER E GAL GADOT si è stati sommari nel decidere di non farli venire, pare che lei sia critica con il governo Netanyahu. Bisogna ammirarebla Flottiglia per quel che sta facendo in risposta all’assenza di presa di posizione assordante da parte delle istituzioni su Gaza”.

Mackinson:  “Ministro cosa ci dice sull’inchiesta sui fondi (300 milioni di euro) di Roma su esponenti di destra su Cinecittà? Il Cinema non sarebbe dunque solo la mangiatoia della sinistra”.

Giuli: “Noi abbiamo innescato la Guardia di finanza”

Mackinson: “Gli ultimi contributi sono del 2024”

Giuli: “Consideriamo che i film sotto accusa sono i fantasma che non esistono e film che hanno dato brutta prova al botteghino. La procedura che ha consentito tutto questo viene dalla sinistra. Nel momento in cui un ministro arriva e trova questa situazione cerca come ho fatto io di sanare; sapere che l’amministratore delegato di Cinecittà e sotto controllo è rassicurante. Il lavoro ha bloccato porta tagli alle produzioni. Tutti siamo d’accordo con la battaglia alle truffe. Il tax credit è uno strumento usato per portare lavoro localmente e dare valorizzazione del territorio. Abbiamo segnalato delle realtà border line”.

Occhipinti: “Purtroppo Il ministro precedente ha strumentalizzato i film andati male senza contestualizzare che c’era la pandemia. In questo settore una società americana programma un anno e mezzo prima. Il tax credit i piccoli chiudono i tempi sono lunghi i taxi credit lo mangiano le banche. Tutto questo blocca il sistema, la possibilità di investire, di essere competitivi

Bellocchio: io sono per la competenza condivido quello che dice Andrea sul “fate presto”.

Giuli: “Abbiamo emanato un decreto correttivo per rendere più semplice l’accesso al tax credit. Un accordo con l’AGE per sboccare le situazioni. C’è un problema reale lavorativo della filiera maestranze. Dobbiamo delle risposte alla situazione della precarietà. Ci siamo trovati a dover segnalare delle anomalie e quindi i tempi su sono allungati. Noi abbiamo l’esigenza di non subire una concorrenza sleale di film fantasma e di non film. Il Fatto Quotidiano ci ricorda che i soldi dei contribuenti sono sacri. Dal 2016 tax credit da 250 a 650 milioni all’anno. Ho sboccato subito tutto quello che c’era da sboccare”.

Occhipinti: “La legge del 2016 prevedeva che l’11% dei fondi aumentasse con l’aumento del settore. Ci sono state le piattaforme di Netflix, Paramounth, Amazon che son venute da noi, abbiamo attratto dall’estero moltissime produzioni. Noi a Lucky Red siamo passati da 25 a 50 dipendenti”.

Zanca: “Quale lo stato di salute del cinema oggi?”

Bellocchio: “Mi colpisce questo clima con Giuli sembra si vada tutti d’accordo. Il teatro televisivo tra i politici trovo sia inutile. Il cinema Italiano non è moribondo. Trovo che ci sia qualcosa di tragico nel mestiere del giornalista che deve aver a che fare con l’attualità. Il cineasta va invece in profondità con la qualità e temi anche del passato; è giusto parlare del presente ma senza che ci venga rimproverato di non essere attuali”.

Mackinson: “Possiamo domandarci per i film sulle piattaforme i ricavi a chi vanno? Non vanno nelle sale ma ad arricchire questi grossi player. Si potrebbe fare un indagine sui loro ricavi per tassarli?”

Occhipinti: “Qui c’è un equivoco. Le piattaforme comprano questi film prodotti in Italia che non vanno in sala ma solo su queste piattaforme. I dati: l’incasso in sala si conosce con CINETEL e SIAE; non c’è l’auditel sulle piattaforme, non conosciamo visualizzazioni od abbonati”.

Giuli: “Ci stiamo muovendo non aggressivo ma con determinazione. Le piattaforme non sono il male assoluto purché paghino le tasse”.

Occhipinti: “Che lascino qualcosa sul territorio se hanno tanti abbonati. Per la nostra normativa i film italiani prima di 105 giorni non possono andare in piattaforma ma devono passare per le sale

Mackinson: “Le piattaforme hanno levato alle sale”.

Zanca: “Ministro cosa ci dice dei discorsi sull’occupazione luoghi del potere?”

Giuli: “Dobbiamo fare chiarezza sul concetto dell’amichettismo. È evidente che una classe dirigente deve essere messa alla prova. Al museo Egizio di Torino abbiamo ad esempio una figura eccellente che lo dirige, in questo caso io non occupo una casella perchè tutte le culture devono avere voce. Capisco le posizioni di Cardini e Veneziani ma oggi con la generazione ATREIU c’è un nuovo ricambio generazionale. C’è una classe dirigente in formazione si cerca di premiare il merito. Prima c’era una stagnazione culturale, oggi siamo tenuti ad aprire il più possibile. Consenso e potere dopo 20 anni senza elezioni si sono ritrovati”.

Occhipinti: “Voglio accennare ad un tema delicato che è quello degli aiuti selettivi che non riguardano il tax credit che è strada percorribile da tutti. È importante la competenza di chi sceglie. Lo Stato non deve essere editore bisogna lasciare al mercato agli artisti di scegliere chi merita”.

Giuli: “Molti ci fanno la critica sullo Stato etico. Son convinto che lo Stato debba scegliere bene su chi possa dare un certificato di qualità. Non possiamo essere Stato etico e poi erogare molti soldi non potete chiederci tutte e due le cose”.

Mackinson: “Maestro Bellocchio, per lei cos’ è il potere oggi?”

Bellocchio: “Nel mondo sta avendo successo in maniera attrattiva in questa società mondiale impaurita questa figura dell’uomo forte, dittatori sia liberali che comunisti. Ho molto apprezzato il film su Sergio Marchionne; era un uomo complesso e molto discutibile ma aveva rinunciato a percorrere un sistema assistenzialistico, per questo la sua è una figura ed una vicenda che ha da insegnarci qualcosa”.

Categorie
Costruttori di ponti

La preghiera di ìntercessione

Non voglio infatti che ignorate fratelli, il piano misterioso in Dio” (Rm 11,25).

L’intercessione nel disegno di Dio

Scuola di animazione carismatica nazionale del RnS

Collevalenza (PG), Casa del Pellegrino, 26.08.2025

Francesco Bungaro, 

Delegato nazionale

Ministero nazionale Intercessione per i sofferenti

“Io sono la vite e voi i tralci chi rimane in.me e io in lui porta molto frutto perché senza di me non potete fare nulla”

(Cfr. Gv 15, 1-8)

Non potete fare NULLA!

Se non siamo discepoli fedeli al Maestro attraverso la testimonianza della preghiera.

Madre Teresa di Calcutta: noi siamo conteplative perché preghiamo il nostro lavoro. Abbiamo bisogno della preghiera del silenzio perché lì ascoltiamo Dio.

Preghiamo 4 ore al giorno.

Le scelte vocazionali spesso sono scelte personali.

Ci sono persone che vivono un travaglio interno perché spesso siamo concentrati su noi stessi e non sul progetto dello Spirito.

Sant’Agostino descrisse magistralmente questo travaglio ne Le Confessioni.

Le sorprese dello Spirito sono tutti i giorni.

Le persone pensano che siano eccezionali e non ordinarie.

Il Signore ha tanta pazienza.

“Ecco io sto alla porta e busso” (Cfr. Ap 3,20).

Cerchiamo di provocare le persone.

PRO-VOCARLE: promuoviamo la loro vocazione, aiutiamole a scoprire quel che il Signore opera in loro.

“Non dire: Sono giovane,
ma va’ da coloro a cui ti manderò
e annunzia ciò che io ti ordinerò”.

(Cfr. Ger 1, 1-18)

Papa Francesco nella Gaudete ed esultate ci dice che Dio ti invita a fare quello che puoi e a chiedere che Dio faccia in noi. Spesso le persone sono rassegnate.

Qualche volte si vorrebbe una vita in perfetto equilibrio, in piena tranquillità.

 Nel libro “L’arte di guarire” Fabio Rossini ricorda:

Il mio doppio guarire, interiore d fisico.

La vita non è equilibrio, la vita è instabilità.

L’unico luogo stabile è la bara!

Il discernimento ha un’importanza fondamentale ma DIO ci mette davanti il bene e il male, la scelta è nostra.

Dobbiamo nell’intercessione pregare perché i fratelli superino le ansie e gli egoismi.

Paolo si è dovuto arrendere al Signore.

Dopo tre giorni di digiuno egli riprense la vista degli occhi e del cuore.

San Francesco persegue un sogno con una scelta di povertà.

Carlo Acutis:

“Essere sempre unito a Gesù è questo il mio programma di vita.

Ci si mette di fronte al sole e ci si abbronza. Ma quando ci si mette di fronte all’Eucarestia si diventa Santi.

La tristezza è lo sguardo rivolto verso sé stessi. La felicità è lo sguardo rivolto verso Dio.”

Quello che caratterizza la vita dei Santi è la qualità della loro reazione spirituale di fronte a qualsiasi evento.

Emmanuel Mounier: “Dio è abbastanza grande da fare una vocazione anche dei nostri errori”.

“Non  sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me” (Cfr. Gal 2,20)

L’intercessione è il desiderare ciò che Dio desidera. 

La risposta del Signore nel suo amore infinito, nella sua pedagogia è spesso diversa da quel che chiediamo; se fosse diversamente, Dio sarebbe un Jukebox.

È una diabolica tentazione disperare dell’amore e del perdono di Dio.

Alza gli occhi al Crocifisso.

Disponi il mio cuore a quelle potature che sono necessarie; 

Rendimi forte in ogni debolezza.

Aiutami a rispondere in ogni circostanza: eccomi Signore!

_______________________________________

Don Alejandro Festa

Equipe Nazionale Intercessione e preghiera

Quando noi abbiamo studiato teologia nessuno ci ha parlato dei carismi.

Sul tema della guarigione i miei professori erano sulla linea di Bultman: togliamo tutte le guarigioni e le liberazioni, dobbiamo demitizzare la fede. Abramo e Mosè non sono esistiti, Israele non è stato in Egitto.

Es 15,26: Dio-rafa Dio-guarigione.

Dio salva tutto.

Stare alla presenza di Dio guarisce.

Ci sono tante testimonianze.

La Bibbia ce lo dice.

La guarigione non è fine a sé stessa, Dio non è un centro benessere.

La guarigione di Dio non è per star bene ma il proposito è sempre per un bene maggiore e superiore, avviene perché il guarito diventi un testimone della gloria di Dio e si metta al servizio del Regno.

“Signore sono pochi quelli che si salvano?

Sforzatevi di entrare per la porta stretta” (cfr. Lc 13. 22-30).

Traduzione Silvano Fausti: “lottare per entrare per la porta stretta”.

La preghiera di intercessione è una lotta, non solo conduciamo gli altri a quella porta ma anche noi dobbiamo entrare in quella porta stretta, per primi dobbiamo scaricarci di ciò che ci è di sovrappeso nella mente e nel cuore, di ciò che non è di Dio e non viene da Dio, non solo la tentazione di non sentirci amati ma anche di non sentirsi perdonato profondamente da Dio, riconciliato con Dio.

Dobbiamo essere audaci nella richiesta della preghiera, senza dubitare di Dio (“ma veramente il Signore mi ascolta?”).

Bisogna lottare con la menzogna e dire al Signore: tu mi hai perdonato in virtù non della mia bravura ma in virtù della tua Croce e del tuo Sangue.

Altre cose che spesso creano pesantezza sono le nostre priblematiche, quelle delle proprie famiglie, lavoro, stanchezza, crisi. Ma quando mettiamo da parte queste pesantezza che ci impediscono, il Signore fa meraviglie con la nostra intercessione e rinnova anche le nostre situazioni.

Prega con fiducia e audacia ed io ti risponderò. 

Qualcosa di pratica riguardo l’intercessione.

Lodare Dio, lottare per far passare attraverso questa porta stretta questi fratelli con la preghiera di Intercessione. 

I doni carismatici da usare in questa preghiera di Intercessione. Lui ci dà tutti i doni necessari. 

La prima cosa è il dono delle lingue. Bisogna pregare con la glossolalia.  Pregare in lingue è un aiuto potentissimo, perché è lo Spirito che prega in noi, ci mette davanti a Dio, facciamo esperienza come quella di Isaia: la gloria di Dio riempie il tempio, e quel tempio siamo anche noi.

Ci sono dei doni, dei carismi.

“Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. 2 In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza; 3 proprio a causa di questa anche per se stesso deve offrire sacrifici per i peccati, come lo fa per il popolo.

4 Nessuno può attribuire a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. 5 Nello stesso modo Cristo non si attribuì la gloria di sommo sacerdote, ma gliela conferì colui che gli disse:

Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato” (Cfr. Eb 5, 1-5).

Ogni intercessione, scelto tra gli uomini, perché è in grado di gestire giusta compassione.

Altro dono importante è il dono di Sapienza.

“Lottare per entrare nella porta stretta, perché molti si sforzeranno di entrare ma non ne avranno la forza” (Silvano Fausti)

Noi la forza la attingiamo dal dono dello Spirito Santo, non siamo noi a operare, ma lo Spirito.

Categorie
Costruttori di ponti

Shining: il mio viaggio nell’orrore del G7 con Emmanuel Macron

Profondamente impopolare in Francia, il presidente Macron ama la scena internazionale, dove si presenta come il leader più adatto a gestire Trump. Sette anni dopo il nostro ultimo incontro, l’ho raggiunto mentre si preparava alla battaglia.

Di Emmanuel Carrère

Da The Guardian

Martedì 15 luglio 2025 06:00 CEST

1. Ai piedi di Hans Egede

Nuuk, la capitale della Groenlandia, è un piccolo agglomerato di prefabbricati arancioni e bassi condomini grigi, adagiati su uno sperone roccioso in riva all’oceano. Non ci sono alberi, ma c’è una collina sormontata dalla statua di Hans Egede, il missionario danese-norvegese che evangelizzò l’isola più grande del mondo nel XVIII secolo e che, in quanto tale, è minacciata di rimozione dagli anticolonialisti Inuit. Era ai suoi piedi che attendevo gli elicotteri che riportavano il primo ministro groenlandese, Jens-Frederik Nielsen, il primo ministro danese, Mette Frederiksen, e il presidente francese, Emmanuel Macron – chiamato durante questo viaggio “PR”, abbreviazione di président de la république – dalla loro escursione sul ghiaccio.

Speravo di poter salire anche io su uno di quegli elicotteri, e pensavo di avercela fatta quando, mentre la delegazione veniva divisa tra i prescelti che avrebbero accompagnato PR in volo e gli altri, Macron mi ha lanciato una di quelle occhiatine rivelatrici che spesso rivolge, così inaspettatamente, a chi entra nel suo campo visivo. Sono tornato subito in me: ci sono molti posti a sedere su un aereo, pochissimi su un elicottero, e questo era un evento PR+3, ovvero PR più altre tre persone, il che era fuori dalla mia portata. Come scrittore embedded in viaggio con la delegazione francese al G7 – il vertice dei paesi più ricchi e, in teoria, più democratici, che si tiene quest’anno in Canada – ho iniziato ad avere una possibilità di PR+6 o 7, il che non era poi così male.

Shining: il mio viaggio nell’orrore del G7 con Emmanuel Macron – podcast

Per saperne di più

In attesa del ritorno del capo di Stato, i membri di medio livello della delegazione francese hanno trovato un hangar dotato di Wi-Fi dove lavorare. Lavorano sempre e, come mi ha detto un consigliere diplomatico, non soffrono di jet lag perché non dormono quasi mai. Quanto a parassiti come me, e ai fotografi che non hanno niente da fare mentre i PR sono via, abbiamo gironzolato per Nuuk, sudando nei nostri piumini e stivali lunari perché ci avevano detto che sarebbe stata sotto zero, mentre in realtà la temperatura era di 10 °C (50 °F).

Solo pochi mesi fa, Macron non si sarebbe mai sognato di visitare la Groenlandia. In realtà, a nessuno importava granché della Groenlandia finché Donald Trump non ha fatto sapere che, come il Canada, era destinata a diventare americana. C’è una “buona possibilità”, ha detto, che la Groenlandia possa essere annessa “senza forza militare”, aggiungendo: “Non tolgo nulla dal tavolo”. In questo contesto, è stato quello che i comunicatori politici definiscono un “gesto forte” da parte di Macron fermarsi a Nuuk per qualche ora durante il suo viaggio verso il G7 e rivolgersi alle 200-300 persone accorse ad ascoltarlo, con la sua voce che alternava commozione e incoraggiamento, le sue parole punteggiate da pause sapientemente piazzate di cui i groenlandesi non hanno ancora avuto il tempo di stancarsi.

Odiare Macron è uno sport nazionale in Francia , uno sport a cui personalmente non partecipo. Qui, invece, la gente era pazza di lui. Dieci giorni prima non sapevano chi fosse, ma il giorno della sua visita, Nuuk sembrava proprio una fucina di ferventi macronisti. La sua presenza portò conforto e l’entusiasmo della folla raggiunse l’apice quando, dopo un sonoro ” Qujanaq! “ (“grazie” in groenlandese), dichiarò innanzitutto che la Groenlandia non è né in vendita né in vendita (applausi prolungati, come se avesse detto “Ich bin ein Grönländer” ), poi che, in segno di incrollabile solidarietà, la Francia aprirà un consolato a Nuuk (applausi un po’ meno entusiasti) e, infine, che il suo viaggio in elicottero con i due primi ministri gli aveva permesso di osservare da vicino gli effetti del riscaldamento globale, a cui la Groenlandia, la cui intera popolazione vive sulla stretta fascia costiera di un gigantesco ghiacciaio che si sta sciogliendo a un ritmo allarmante, è particolarmente esposta.

Nella successione di brevi discorsi, i tre leader si sono superati a vicenda nell’uso della parola “clima” – cinque volte per Macron – ma non avevo ancora avuto la sensazione di quanto potessero essere provocatorie affermazioni così apparentemente banali. Al termine dei discorsi, un giornalista ha chiesto al responsabile delle pubbliche relazioni fino a che punto si sarebbe estesa la sua solidarietà se Trump avesse invaso la Groenlandia, e lui ha risposto con un pizzico di impazienza, dicendo che non voleva perdere tempo a speculare su questioni che non erano al momento sul tavolo.

2. Sull’aereo

Quasi sette anni prima, nel settembre 2017, avevo viaggiato sull’aereo presidenziale con Macron, di cui stavo scrivendo un profilo per il Guardian. Era l’inizio del suo primo mandato e tutto sembrava andare per il meglio. Eravamo diretti a Saint Martin, un territorio d’oltremare nei Caraibi recentemente devastato da un uragano, e poi ad Atene, dove Macron tenne un discorso fondamentale sulla civiltà europea. Col senno di poi, quei tempi sembrano quasi spensierati, se si considera che il nostro viaggio verso il G7 si stava svolgendo sullo sfondo della guerra in Ucraina, della distruzione sistematica di Gaza, di un disastro ecologico ormai irreversibile e, nei due giorni precedenti, degli attacchi israeliani all’Iran che alcuni consideravano un preludio alla Terza Guerra Mondiale. Tutto ciò mi ha fatto chiedere se, tra altri sette anni, ripenseremo con nostalgia alle nostre attuali calamità, tanto indiscriminato e inarrestabile sembra essere diventato il caos.

Nei miei appunti del 2017 ho trovato queste parole di Macron: “Se non fossimo in un momento tragico della nostra storia, non sarei mai stato eletto. Non sono fatto per guidare quando il tempo è calmo. Il mio predecessore [il gioviale socialista François Hollande] lo era, ma io sono fatto per le tempeste”. Sull’aereo, gliel’ho mostrato. “Bene, eccoci qui”, ha detto con un sorriso.

Sul fronte interno, va detto che Macron non ha fatto nulla per placare la tempesta quando, un anno fa, ha deciso di sciogliere l’Assemblea Nazionale – un elettroshock politico che senza dubbio ha interpretato come un approccio “o la va o la spacca” alla sua impopolarità, senza precedenti nella storia della Quinta Repubblica, ma che ha lasciato il Paese, se non totalmente ingovernabile, almeno ancora più difficile da governare del solito, e in ogni caso più difficile da governare per lui . Ma essendo PR – cioè poco incline all’autocritica – Macron resta convinto che la storia gli darà ragione. Al massimo, come ha ammesso nel suo ultimo discorso di Capodanno, la sua decisione non è stata compresa e lui ha portato una parte della responsabilità di questo malinteso, senza specificare chi ha portato il resto.

Nonostante le sue difficoltà sul fronte interno, tuttavia, la politica estera rimane tradizionalmente appannaggio del presidente francese, e si potrebbe ragionevolmente sostenere che, sebbene sia un pezzo grosso in patria, Macron prosperi sulla scena internazionale. “Un’ottima mossa per la carriera”, si dice che Gore Vidal abbia commentato dopo aver appreso della morte di Truman Capote. Allo stesso modo, il caos globale si sta rivelando un’eccezionale spinta alla carriera per Macron, dato che c’è una posizione da ricoprire alla guida dell’Europa . In ogni caso, è così che la vede lui, e in effetti, durante il tempo che ho trascorso con lui, sembrava essere in ottima forma. Avevo immaginato che il mio secondo ritratto di lui sarebbe stato molto diverso dal primo, la caduta dell’Impero romano dopo il suo apogeo, soprattutto perché alcuni mi avevano detto che ora era cupo, tormentato, abbandonato da tutti, con le unghie rosicchiate fino al vivo, mentre vagava per i corridoi di un palazzo presidenziale dove non si prendono più decisioni.

Da parte mia, non ho visto nulla di così shakespeariano. Sembrava relativamente immutato, a parte il fatto che si è chiaramente dato al sollevamento pesi e che, con una maglietta nera attillata – il suo abbigliamento sull’aereo – ha messo in mostra dei bicipiti piuttosto impressionanti, che non si è accontentato di mostrare, ma ha lavorato con visibile soddisfazione. Per il resto è ancora calmo, pronto a reagire, disponibile, i suoi occhi azzurri fissi nei tuoi, la sua mano che stringe la tua e la lascia andare solo con riluttanza, e mentre sono pronto a credere che in fondo (mi sorprende sempre sentirlo usare questa espressione adolescenziale, “in fondo”) sia arrogante, egocentrico e disinteressato a nessuno, almeno in superficie (il che, a mio parere, non significa che sia falso ), è ancora attento come sempre, sempre presente per la persona con cui sta parlando, sempre distinta dalla massa.

Lo so, è una caratteristica tipica dei politici: farti sentire l’unico che conta, che se è salito sull’aereo è stato per godersi appieno la tua compagnia e che ti conosce meglio di quanto tu conosca te stesso. Ma lui lo porta all’estremo, e chiunque abbia avuto a che fare con lui può raccontare un aneddoto o l’altro che lo illustra in modo quasi soprannaturale. Ecco il mio. L’aereo presidenziale è diviso in quattro sezioni. Nella parte anteriore c’è la suite del PR, a cui solo lui ha accesso. Poi c’è una lounge dove, su suo ordine, una dozzina di persone possono sedersi a un grande tavolo ovale per una sessione di lavoro, un drink o anche un pasto leggero. (Lo stesso Macron sembra mangiare solo noci pecan). Poi c’è una cabina business per la cerchia ristretta, PR+18, e infine la parte posteriore dell’aereo, per la sicurezza, la logistica e i giornalisti. Ero nella cabina PR+18 e durante il viaggio di tre giorni sono stato invitato al tavolo ovale tre volte, dove ho trovato PR in vena di parlare di film francesi d’altri tempi. Non la Nouvelle Vague, non Godard o Truffaut, no, ma commedie e film polizieschi di registi popolari e tradizionali come Henri Verneuil, Georges Lautner e Claude Lelouch, che vengono ritrasmessi ripetutamente in TV. (È improbabile che i lettori inglesi li conoscano, ma i loro equivalenti britannici non esportabili potrebbero essere “Noci a maggio” o ” Carry On Up the Jungle”). Macron, in ogni caso, ha snocciolato i dialoghi, conditi con slang desueto, con la stessa abilità con cui cita i versi delle figure più nobili della poesia francese del XX secolo, come Yves Bonnefoy, Patrice de la Tour du Pin e Louis Aragon.

In questo flusso di erudizione cinematografica e letteraria, arrivò un momento in cui si cominciò a parlare del prossimo adattamento de “Il mago del Cremlino”, il romanzo di Giuliano da Empoli sull’eminenza grigia di Putin, Vladislav Surkov , per il quale ho scritto la sceneggiatura con il regista Olivier Assayas. Jude Law interpreta Putin, e io tirai fuori il telefono per mostrare alle pubbliche relazioni una sua foto nel ruolo. “Non male”, disse Macron, restituendomi il telefono, e per un attimo ebbi la sensazione che fosse infastidito dal fatto che Jude Law stesse interpretando Putin e non lui. Ma perché, chiese, ho scritto io la sceneggiatura? Perché non Giuliano? (Rispose “Giuliano”). Risposi che l’autore di un libro non è necessariamente la persona più adatta ad adattarlo per il cinema, gli manca il distacco, io stesso non collaboro agli adattamenti dei miei libri. Macron alzò un sopracciglio: “Ma hai adattato “Class Trip” con Claude Miller, vero?”

Ora, quello che dovete sapere è che Class Trip, basato sul mio romanzo omonimo, è uscito quasi 30 anni fa. Penso che sia un film bellissimo, ma non è stato un successo, né di critica né di pubblico. Se facessi un sondaggio tra 10 miei amici, forse uno o due l’avrebbero visto, e a parte il mio agente che ha redatto il contratto, nessuno sarebbe in grado di dire se ho collaborato o meno alla sceneggiatura. “Nessuna sorpresa”, dicono le persone quando racconto loro questo aneddoto sulle pubbliche relazioni, “ha dato appunti su tutti quelli con cui parla, tutto qui”. No. O se questa è la spiegazione, è ancora più notevole del fatto stesso. Supponendo che Macron si sia preso la briga di esaminare un dossier su di me, dovrebbe essere lungo 15 pagine per includere un dettaglio del genere.

Stupito, chiesi: “Come diavolo lo sai?”

Lui rispose: “Dormo poco ma bene. Questo mi lascia il tempo di guardare film”.

3. Lo sherpa

Preso in prestito dall’alpinismo himalayano, dove si riferisce alle guide, il termine si è affermato nei vertici internazionali: lo sherpa prepara il terreno e accompagna il capo di Stato. Dal 2019, Emmanuel Bonne è lo sherpa di Macron e capo dell’unità diplomatica dell’Eliseo, il che lo rende una figura meno pubblica ma molto più importante dei vari ministri degli Esteri che si sono succeduti da un governo all’altro (questa è la mia opinione, lui stesso non lo direbbe mai, ovviamente). Diplomatico di carriera ed esperto di Medio Oriente, Bonne è un uomo elegante sulla cinquantina con una voce chiara e profonda che, mantenendo lo stile diretto e amichevole usato nelle pubbliche relazioni, afferma di applicare la parola d’ordine gesuita ” perinde ac cadaver” (“obbedienza cadaverica”) nei suoi rapporti con lui. (Almeno questo è quello che mi ha detto, forse perché dà per scontato che, come scrittore, io conosca il latino e Ignazio di Loyola. Con altri è più schietto e dice di essere un fervente servitore dello Stato.)

Durante la seconda parte del viaggio, tra Nuuk e Calgary, ai piedi delle Montagne Rocciose canadesi, ho chiesto a Bonne di spiegarmi la posta in gioco del vertice, e questo è ciò che ho annotato. Quando il Presidente Valéry Giscard d’Estaing diede vita al G7 – poi “Gruppo dei Sei”, o G6 – nel 1975, i Paesi partecipanti (Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Germania, Italia e Giappone) rappresentavano circa il 75% del PIL mondiale. Oggi questa cifra è scesa a circa il 35%. “Eravamo i presidenti del consiglio di amministrazione”, riassume Bonne. “Ora non siamo nemmeno azionisti di maggioranza”. Ciò rende ancora più cruciale per questi Paesi, se non vogliono scomparire completamente dalla scena, trovare una soluzione o almeno concordare una posizione su una delle principali questioni che affliggono il pianeta: Ucraina, Medio Oriente, ambiente, dazi doganali – non importa quale, gli elefanti nella stanza non mancano. L’obiettivo del vertice era quindi quello di produrre una dichiarazione congiunta che esprimesse semplicemente una volontà politica, una direzione, obiettivi condivisi.

Di solito non dovrebbe essere troppo difficile, ma lo è diventato da Trump II, soprattutto quando si parla di clima. Finora, dire che il riscaldamento globale è una grave minaccia e che fermarlo è una priorità assoluta era altrettanto indiscutibile quanto dire di essere contro la guerra, a favore della pace, a favore della riduzione delle disuguaglianze, ecc. Una volta detto questo, si agiva o meno in base alle proprie parole, ma proclamarle non costava nulla. Quei giorni sono finiti. Poiché il padrone del mondo pensa che il clima non sia un problema, non c’è modo di metterlo all’ordine del giorno, nemmeno come un pio desiderio. Persino la parola “clima” è diventata un tabù.

Macron (secondo da sinistra) al G7 con – da sinistra a destra – il primo ministro italiano Giorgia Meloni, il primo ministro canadese Mark Carney, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il primo ministro del Regno Unito Keir Starmer.Visualizza l’immagine a schermo intero

Macron (secondo da sinistra) al G7 con – da sinistra a destra – il primo ministro italiano Giorgia Meloni, il primo ministro canadese Mark Carney, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il primo ministro del Regno Unito Keir Starmer. Fotografia: Simon Dawson/No 10 Downing Street

Consapevoli del poco margine di manovra, i canadesi, che ospitavano il G7 di quest’anno, decisero fin dall’inizio che non ci sarebbe stata alcuna dichiarazione congiunta, ma solo una sorta di riassunto neutrale, con ogni parola pesata su una bilancia e, per quanto possibile, svuotata di significato. Già confrontati con il crudele obbligo di ospitare come ospite d’onore qualcuno che non ha fatto mistero di voler fare del proprio Paese il 51° Stato, i canadesi furono ulteriormente traumatizzati dal ricordo del precedente vertice del G7 tenutosi sul loro territorio sette anni prima, che non avrebbe potuto andare peggio. Trump I si arrabbiò e se ne andò prima della fine, rifiutandosi di firmare la dichiarazione congiunta e accusando il suo ospite, Justin Trudeau, di essere “debole” e “disonesto”. Terrorizzati al pensiero che qualcosa del genere potesse accadere di nuovo, i canadesi erano pronti a inchinarsi. Inoltre, in generale, per i sei membri del club degli ex padroni del mondo è diventato un obiettivo a sé stante ridurre al minimo i danni con il settimo. Allo stesso tempo, devono ricordare a tutti che sono ancora qui e, mentre si inchinano, gonfiano il petto come meglio possono. Ora capisco meglio perché Macron abbia insistito così tanto sulla parola “clima” a Nuuk.

L’esercizio, ha riassunto Bonne durante uno spuntino al tavolo ovale (ravanelli, piccoli panini al salmone e cetriolo, tutte le noci pecan che si possono mangiare), è “farci sentire senza dare l’impressione di prendere in giro Trump”. Macron ha risposto con nonchalance a questo cauto appello all’audacia con una scoop: “L’ho chiamato ieri mattina e gli ho detto che saremmo andati in Groenlandia”.

“E?”

E lui ha detto: ‘Fantastico! Ottima idea. Di’ loro che voglio solo il loro bene.'”

Sebbene l’inglese non faccia alcuna distinzione tra il tu informale e il vous formale , Macron, nei suoi rapporti con Trump – o meglio nei suoi resoconti dei suoi rapporti con Trump – ha optato per un linguaggio informale. Mette in campo tutte le sue abilità sociali per presentarsi come leader dell’Europa nell’era di Trump 2, e come qualcuno che conosce bene Trump e può fare osservazioni astute e inaspettate sul suo carattere (“Non è per niente suscettibile”, ha detto, “e finché si è aperti al dare e avere, è tutt’altro che egoista”) – in breve, come qualcuno che sa come gestire la bestia. Questo non è falso, e per di più, anche se Macron è ancora giovane (47), in termini di longevità presidenziale è il più anziano dei leader destinati a partecipare al G7. Appartiene al club molto esclusivo di coloro che sono ora al loro secondo mandato. Bonne ha ricordato che in uno dei suoi momenti più espansivi, Trump stesso diede un colpetto sulla spalla a Macron e disse: “Vedrai, io e te, ne faremo un terzo”.

La Costituzione francese, come quella russa, vieta tre mandati presidenziali consecutivi , ma è possibile richiederne un terzo a condizione di aver ottenuto un lasciapassare per un mandato: è ciò che ha fatto Putin quando ha ceduto le redini a un Dmitry Medvedev attentamente monitorato per quattro anni, e Macron è sempre più aperto riguardo alla sua intenzione di fare lo stesso e di ricandidarsi nel 2032. La Costituzione statunitense, d’altro canto, non prevede questo, ma Trump ha già avvertito che non c’è motivo di privare il mondo della sua genialità, che una Costituzione non è scolpita nella pietra e che gli avvocati patrioti stanno già cercando una soluzione.

4. Il topo

Quando mi sono svegliato nella mia stanza al Lodges di Canmore, vicino a Kananaskis, un piccolo villaggio dell’Alberta molto frequentato dagli escursionisti, erano le 4 del mattino. Macron era già uscito a fare jogging, ma io, non avendo svolto il mio tirocinio presso l’unità diplomatica dell’Eliseo, ero distrutto dal jet lag. È stato in questo stato di disorientamento che ho ricordato quanto segue.

Quando le sue figliastre erano piccole, lo scrittore di fantascienza Philip K. Dick inventò per loro una variante del Monopoli, con l’obiettivo di rendere un po’ meno noioso l’infinita corsa all’acquisto di edifici nel gioco che amavano. In questa variante, il banchiere è chiamato il Topo e, invece di fungere semplicemente da arbitro, ha il potere discrezionale di cambiare le regole del gioco quando vuole, come gli aggrada, senza che nessuno possa mettere in discussione i suoi dettami. È una tabula rasa perpetua, pura dittatura, la negazione della legge e dell’ordine. Perché un gioco abbia successo, è nell’interesse dei giocatori scegliere il partecipante più crudele e creativo come Topo. Un Topo degno di questo nome deve sapere come infliggere il tormento che infligge ai giocatori, far credere loro che le sue decisioni arbitrarie seguano un piano, bilanciare crudeli delusioni e volubili incoraggiamenti, strapparli a tutto ciò a cui sono abituati nel Monopoli e – senza perdere il loro interesse – gettarli nel caos.

Quando, alle 8 del mattino, dopo aver superato diversi posti di blocco su una strada di montagna con un paesaggio magnifico, noi, PR+6 e altri membri della delegazione, siamo arrivati all’enorme e isolato hotel – che mi ha ricordato l’Overlook Hotel di Shining – dove si stava svolgendo il summit, ho capito che ero venuto fin lì per assistere a una spettacolare partita del Ratto.

Vestiti con abiti scuri e cravatta per gli uomini (la stragrande maggioranza) e sobri tailleur pantalone per le donne, 1.500 di noi camminavano avanti e indietro da una sala all’altra, attraverso corridoi rivestiti di tappeti, anch’essi usciti direttamente dall’Overlook Hotel. Un fotografo con cui avevo fatto amicizia fece una battuta: “Immagina che le porte dell’ascensore si aprano e vedi uscire due Trump: gemelli “. Ci siamo aggirati a lungo e abbiamo aspettato a lungo, il gioco per i piccoli come me era aggirare le varie guardie di sicurezza e passare attraverso porte che, in teoria, erano chiuse a gente come noi. È così che, aggrappandomi letteralmente a Emmanuel Bonne, ho ottenuto l’accesso al grande salone (PR+4) dove i sei leader normali aspettavano che il settimo scendesse dal suo Olimpo.

In realtà, solo cinque dei sei erano presenti: mancava anche Friedrich Merz, il cancelliere tedesco. Non potevano iniziare senza di lui, figuriamoci senza Trump, così chiacchierarono, e le solite convenevoli si trasformarono in chiacchiere sempre più sconnesse. Mark Carney, il primo ministro canadese, aveva l’espressione ansiosa di un ospite che ripete un po’ troppo insistentemente che va tutto bene, benissimo. Shigeru Ishiba, il primo ministro giapponese, ascoltava distrattamente il primo ministro italiano Giorgia Meloni che gli raccontava della passione di sua figlia per i manga. Mi chiedevo se, a tu per tu con i primi ministri australiano o spagnolo, avrebbe continuato a parlare della passione di sua figlia per il surf o la corrida. Chi può dirlo? So che Meloni è considerata di estrema destra e che non si dovrebbero dire cose belle su di lei, ma diciamo solo che questa minuta donna bionda si è distinta al G7 per la sua vivacità brusca e il suo dress code che non ha fatto concessioni all’onnipresente grigio. In mezzo ai tailleur austeri, il suo leggero abito celeste sembrava quasi un abito da spiaggia.

Con il passare dei minuti, che sembravano sempre più lenti, la gente iniziava a chiedersi dove potesse essere Merz. Era andato nel panico? Era fuggito? Il ritardo durava già da una buona mezz’ora, un tempo lungo per un evento programmato per non più di 36 ore in tutto. Finalmente, i due apparvero, Merz alto, magro e grigio, con un linguaggio del corpo che non faceva capire se fosse nel ruolo di ostaggio o di prescelto, Trump fedele alla sua immagine: abito blu notte, cravatta rossa, viso arancione, corpo robusto, solo un accenno di sorriso. Due leader che parlano a tu per tu prima dell’apertura ufficiale del vertice è totalmente contro il protocollo, mi sussurrò Bonne all’orecchio, un affronto aperto e deliberato, certamente non nello stile del povero Merz, un cristiano-democratico di vecchia scuola, il fragile e traballante baluardo contro un’estrema destra tedesca già appoggiata dal vicepresidente degli Stati Uniti, J.D. Vance . Trump aveva usato Merz per inviare il solito messaggio: faccio quello che voglio.

Quanto a quello che è successo dopo, vi risparmierò i convenevoli, i discorsi di benvenuto e il photocall. Poco dopo è iniziata la prima discussione plenaria, a cui solo gli sherpa (PR+1) potevano partecipare, ma io ho avuto accesso alla sala stampa, dove si può vedere e sentire tutto come se si fosse seduti al tavolo. Per dare il via ai lavori, Trump ha affermato che tutti questi discorsi erano inutili in assenza di Putin – escluso dal club da quell’incompetente Obama dopo l’annessione della Crimea nel 2014 – un messaggio che ha ripetuto con tono sempre più cupo ogni volta che qualcuno osava inviargli un commento.

Prendendo spunto da Carney, Macron si è comportato come se le cose fossero partite alla grande e ha sostenuto con coraggio un accordo commerciale e tariffario che sarebbe stato vantaggioso per tutte le parti. In suo aiuto, Meloni ha improvvisamente tirato fuori dalla borsa due mappe del mondo e le ha mostrate a Trump, dicendo: “Guarda, Donald: tutto questo, in blu, siamo noi 20 anni fa, quando eravamo ancora al comando. E questo in rosso è il commercio di oggi, cioè principalmente la Cina. Quindi sarebbe meglio se noi, i blu, potessimo raggiungere un accordo tra noi contro i rossi, perché la questione ora non è più tanto chi lasciamo entrare, ma come non essere cacciati fuori”. Finita la sua tirata, ha annuito vigorosamente in segno di approvazione. E mentre iniziavo a trovarla sempre più simpatica, mi sono posto una domanda imbarazzante: se non fossi francese, se la osservassi da lontano, troverei simpatica anche Marine Le Pen? In ogni caso, una cosa che si può dire di Meloni è che è la persona meno impassibile che si possa immaginare: quando qualcosa la diverte scoppia a ridere, se qualcosa la annoia alza gli occhi al cielo e lascia uscire un gran sospiro.

Dopo un’ora e mezza, come previsto, non eravamo arrivati da nessuna parte. Trump si è degnato di fare una battuta a Keir Starmer: “Dici di essere una democrazia, ma non è vero: hai un re”. Starmer ha riso un po’ ossequiosamente, sollevato come chi è stato colpito da un fulmine una volta e difficilmente lo sarà di nuovo. Si sbagliava: poche ore dopo, in piedi con Trump fuori dall’hotel, quest’ultimo ha lasciato scivolare un fascio di fogli da una cartella, spargendoli a terra, e poiché non si è mosso per raccoglierli, è stato Starmer che, dopo un attimo di esitazione, si è chinato e si è letteralmente inginocchiato ai piedi del maestro – un’immagine devastante che ovviamente ha fatto il giro del mondo.

Successivamente, in sale più piccole, si sono svolti alcuni bilat – come vengono chiamati i colloqui bilaterali tra due leader. Ho assistito a quelli tra Macron e Starmer e poi tra Macron e Carney: non mi hanno fatto molta impressione. Alla fine del pomeriggio, Macron ha tenuto una conferenza stampa improvvisata fuori dall’hotel. Alla domanda se approvasse gli attacchi israeliani all’Iran e la prospettiva di un cambio di regime a Teheran, ha risposto che, per quanto detestabile possa essere il regime, le rivoluzioni imposte dall’esterno raramente finiscono bene. Basta guardare Iraq e Libia.

“Come interpreta l’apparente improvvisa partenza di Trump dal G7?”, ha proseguito il giornalista. La maggior parte di noi presenti a questo scambio non sapeva che Trump se ne fosse andato, e l’annuncio ci ha lasciato sbalorditi. Per un attimo, lo stesso Macron è sembrato colto di sorpresa. “Credo”, ha detto, “che sia andato a negoziare un cessate il fuoco tra Iran e Israele”.

L’intenzione di Macron, a mio parere, era quella di scagionare educatamente Trump dalle accuse di essere stato maleducato e di aver avuto un accesso d’ira, ma il colpo di fulmine non si è fatto attendere. Arrivato a Washington poche ore dopo, Trump ha dichiarato che non aveva intenzione di negoziare un cessate il fuoco, ma qualcosa di “molto più grande” (il che era vero: dopo tre giorni di esitazione, gli Stati Uniti sono entrati in guerra a fianco di Israele). Trump ha aggiunto che, sebbene Macron sia un “bravo ragazzo”, è “in cerca di pubblicità” e, in seguito, che “non ci azzecca troppo spesso”, al che Macron ha risposto con un’alzata di spalle e senza rancore: non era il primo né l’ultimo commento del genere, una battuta tra amici che vanno d’accordo nonostante qualche battibecco. (Come disse Reagan quando gli fu detto nel 1981 che Israele aveva appena bombardato un reattore nucleare iracheno: “I ragazzi sono ragazzi”.)

5. Il gufo sulla maglietta

Con la partenza del Ratto, la tensione si è placata. Si poteva respirare di nuovo, ma non si poteva negare che la partita avesse perso un po’ del suo fascino. Anche se il secondo giorno non è durato più di mezza giornata, si è trascinato per ore, il che è stato ancora più crudele se si considera che la star era Volodymyr Zelenskyy. Invitato dal G7, aveva percorso più di 3.000 miglia solo per vedere Trump e implorarlo ancora una volta di non abbandonare completamente l’Ucraina, e Trump lo ha umiliato ancora una volta, questa volta andandosene poco prima del suo arrivo.

Almeno, presumo che questo sia ciò che Trump deve aver creduto, ovvero che stesse umiliando Zelenskyy. Personalmente, appartengo a coloro che pensano che una scena così agghiacciante come quella avvenuta a febbraio nello Studio Ovale abbia solo contribuito a sminuire Trump e a esaltare Zelenskyy. Penso anche che, nonostante la differenza di statura, Zelenskyy superi Trump in coraggio e forza – anche fisica – e che in un mondo normale la sua reazione normale sarebbe stata semplicemente quella di afferrare Trump per i risvolti del suo abito blu notte e dargli una bella testata. Ma viviamo sotto il regno incontrastato del più feroce dei Ratti, Zelenskyy sta combattendo per un Paese in guerra, e per lui l’eroismo consiste nel sopportare un insulto dopo l’altro e dire grazie.

Riuniti attorno a lui per l’ultima sessione plenaria, gli altri membri del G7 hanno approfittato dell’assenza di Trump per mostrare a Zelenskyj solo preoccupazione e comprensione. Quando Merz ha affermato che l’approccio militare è in una fase di stallo e che ora è necessario affinare le sanzioni, Zelenskyj ha risposto che sì, certo, è favorevole alle sanzioni, ma che in attesa che entrino in vigore l’Ucraina deve mantenere il controllo del suo territorio, quindi ha bisogno di armi (“Ho bisogno di munizioni”, come sempre).

Tutti annuirono: ti capiamo, Volodymyr, siamo con te, Volodymyr, e ovviamente la Russia è l’aggressore – un’affermazione che oggi rientra nella stessa categoria “provocatoria” di affermare che la crisi climatica è reale. Meloni riassunse il sentimento generale esclamando: “Non illudetevi, amici miei. Lui [Putin] non vuole solo il 20% del Paese di Volodymyr, ne vuole il 100%, e non si fermerà qui. Vuole restaurare il suo impero. Come se tu [mettendo una mano sul braccio di Macron] volessi mezzo mondo perché un tempo erano colonie francesi, o tu [accennando con il mento a Starmer, ancora sconvolta dal giorno prima] volessi il Commonwealth. E già che ci siamo, perché non ricostruisco l’Impero Romano?”

Macron sorrise con indulgenza. Il mio amico fotografo stamattina ha detto: “È al settimo cielo ora che Trump se n’è andato. Ora è il maschio alfa”. E in effetti, con le braccia incrociate e il petto reclinato all’indietro come per fare il punto della situazione, il nostro addetto stampa aveva assunto con visibile piacere il ruolo dell’adulto nella stanza.

Sull’aereo di ritorno, poche ore dopo, aveva di nuovo sostituito l’abito con una maglietta nera, che, notai, era decorata con un piccolo gufo, e questo mi ricordò improvvisamente il discorso che aveva tenuto sette anni prima, un’eternità prima, ad Atene, sulla civiltà europea. Citò l’osservazione di Hegel secondo cui “la civetta di Minerva spiega le ali solo al tramonto” – in altre parole, che qualsiasi fase della storia può essere compresa appieno solo quando quel momento è quasi trascorso. Fu contento che me ne accorgessi: ovviamente il piccolo gufo non era sulla sua maglietta per caso. Certo – per ripetere il suo mantra tanto deriso – vuole scrivere la storia e capirla “allo stesso tempo”.

In orbita attorno a Giove: la mia settimana con Emmanuel Macron

Per saperne di più

Ho scarabocchiato alcune cose che mi ha detto durante l’ultima cena al tavolo ovale, così velocemente che ora faccio fatica a leggerle. C’era troppo rumore per registrarle, tutti (PR+20, direi) parlavano a voce alta, ridevano forte, tutti erano un po’ euforici per l’adrenalina, la stanchezza e perché le cose non erano andate poi così male – anche se, “in fondo”, non avevamo nulla da mostrare: nessuna dichiarazione congiunta, nemmeno l’accenno di una tabella di marcia per qualcosa. Ha parlato di bolle cognitive (“Certo che Trump vive in una bolla cognitiva, ma anch’io, anche tu, è qualcosa di cui bisogna essere almeno un po’ consapevoli”); i vantaggi e gli svantaggi del pensare in modo “contrarian” – cioè in opposizione all’opinione popolare (“Come un idiota ho seguito l’account X di Javier Milei, e quando leggo i suoi post mi rendo conto che sono in grado di essere d’accordo con lui”); e i doppi standard, una sua ossessione (“Se le cose continuano così, tra Ucraina e Gaza finiremo per perdere quel poco di credibilità che ci è rimasto. L’Europa avrà perso la sua occasione”).

Ma ciò che mi ha colpito di più è stato ciò che ha detto con improvvisa forza sugli adolescenti e sui teenager – non ricordo come ci siamo arrivati: “Non sono mai stato un adolescente. Non mi piacciono gli adolescenti. Non li capisco [è raro che Macron dica di non capire qualcosa]. Mia moglie li capisce”. Ho pensato tra me e me: era un adolescente quando si sono conosciuti, e forse se lei non avesse capito gli adolescenti non sarebbe sul suo aereo da pubbliche relazioni oggi, con il suo piccolo gufo di Minerva stampato sulla maglietta nera da culturista. E poi, l’ultima parola prima di andare a dormire – anche lui – per due o tre ore. A quanto pare era una frase che diceva sua nonna, e chi gli sta intorno la conosce a memoria e la attende con un misto di ilarità complice e lieve preoccupazione, perché sotto la sua gentilezza si cela una minaccia: “OK, tutti a letto. Buona notte, ve la meritate”.

Tradotto da John Lambert

Categorie
Costruttori di ponti

Gaza: gli scioperi israeliani nelle scuole amplificano il pericolo per i civili – Rapporto Human Rights Watch 7 agosto 2025

Gli attacchi mortali alle scuole trasformate in rifugi mostrano la vulnerabilità degli sfollati

334becc1-8daf-4520-a899-7c5c3456256d
La scuola Al-Zeitoun C di Gaza City, colpita da un attacco aereo israeliano il 21 settembre 2024, uccidendo almeno 34 palestinesi sfollati, tra cui almeno 21 bambini, che vi si erano rifugiati. © 2024 Dawoud Abo Alkas/Anadolu tramite Getty Images
  • Gli attacchi mortali delle forze israeliane contro le scuole che ospitano civili palestinesi evidenziano l’assenza di luoghi sicuri per gli sfollati, che costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione di Gaza.
  • Centinaia di attacchi israeliani dall’ottobre 2023 hanno colpito oltre 500 edifici scolastici, molti dei quali utilizzati come rifugi, uccidendo centinaia di civili e causando danni significativi a quasi tutte le scuole di Gaza.
  • Gli attacchi israeliani hanno negato ai civili un accesso sicuro ai rifugi e contribuiranno a interrompere l’accesso all’istruzione per molti anni, poiché la riparazione e la ricostruzione delle scuole possono richiedere ingenti risorse e tempo.

(Gerusalemme, 7 agosto 2025) –  Gli attacchi mortali delle forze  israeliane contro le scuole che ospitano civili palestinesi evidenziano l’assenza di luoghi sicuri per gli sfollati di Gaza, ha dichiarato oggi Human Rights Watch. Dall’ottobre 2023, le autorità israeliane hanno effettuato centinaia di attacchi contro le scuole che ospitano sfollati palestinesi, inclusi attacchi illegali e indiscriminati con munizioni statunitensi, che hanno ucciso centinaia di civili e danneggiato o distrutto praticamente tutte le scuole di Gaza. 

I recenti attacchi israeliani contro le scuole trasformate in rifugi fanno parte dell’attuale offensiva militare delle forze israeliane, che sta  demolendo gran parte delle restanti infrastrutture civili di Gaza, costringendo nuovamente centinaia di migliaia di palestinesi a sfollare e peggiorando la già  disastrosa situazione umanitaria. I governi, compresi gli Stati Uniti , che hanno fornito armi utilizzate in attacchi illegali, dovrebbero imporre un embargo sulle armi al governo israeliano e adottare altre misure urgenti per far rispettare la Convenzione delle Nazioni Unite per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (Convenzione sul genocidio). 

“Gli attacchi israeliani contro le scuole che ospitano famiglie sfollate offrono una finestra sulla carneficina diffusa che le forze israeliane hanno perpetrato a Gaza”, ha affermato  Gerry Simpson , direttore associato per le crisi, i conflitti e le armi di Human Rights Watch. “Altri governi non dovrebbero tollerare questo orrendo massacro di civili palestinesi che cercano semplicemente sicurezza”.

Human Rights Watch ha indagato sugli attacchi israeliani che hanno colpito la scuola femminile Khadija a Deir al-Balah il 27 luglio 2024, uccidendo almeno  15 persone , e la scuola al-Zeitoun C nel quartiere al-Zeitoun di Gaza City il 21 settembre 2024, uccidendo almeno  34 persone . Human Rights Watch non ha trovato prove di un obiettivo militare in nessuna delle due scuole.

Questi risultati si basano su un’analisi di immagini satellitari, foto e video degli attacchi e delle loro conseguenze, materiale dei social media relativo agli uomini che si sa essere morti nei due attacchi e interviste telefoniche con due persone che hanno assistito alle conseguenze dello sciopero della scuola Khadija e un’altra presente durante l’attacco alla scuola al-Zeitoun C. 

Le autorità israeliane non hanno fornito pubblicamente informazioni sugli attacchi documentati da Human Rights Watch, inclusi dettagli sull’obiettivo designato o sulle precauzioni adottate per ridurre al minimo i danni ai civili. Non hanno risposto a una  lettera del 15 luglio che riassumeva le conclusioni di Human Rights Watch su questi attacchi e richiedeva informazioni specifiche.

L’assenza di un obiettivo militare negli scioperi delle scuole di Khadija e al-Zeitoun renderebbe gli attacchi illegalmente indiscriminati in violazione didiritto internazionale umanitarioLe scuole e le altre strutture educative sono beni civili e protetti dagli attacchi. Perdono tale protezione quando vengono utilizzate per scopi militari o occupate da forze militari. L’uso delle scuole per ospitare civili non ne altera lo status giuridico.

Tra il 1° e il 10 luglio 2025, le forze israeliane hanno colpito almeno 10 scuole trasformate in rifugi, alcune delle quali erano state danneggiate in precedenza, uccidendo 59 persone e costringendo nuovamente allo sfollamento decine di famiglie,  secondo l’  Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) . L’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA)  ha riferito che circa un milione di sfollati a Gaza si erano rifugiati nelle scuole durante le ostilità e che, al 18 luglio, almeno 836 persone che si erano rifugiate nelle scuole erano state uccise e almeno 2.527 ferite.

La valutazione più recente dell’Occupied Palestinian Territory Education Cluster ha rilevato che il 97 percento degli edifici scolastici di Gaza (547 su 564) ha subito danni di qualche tipo, compresi 462 (76 percento) che sono stati “colpiti direttamente”, e che 518 (92 percento) necessitano di “una ricostruzione completa o di importanti lavori di riabilitazione per tornare a funzionare”.

Gli attacchi israeliani hanno negato ai civili un accesso sicuro ai rifugi e contribuiranno a interrompere l’accesso all’istruzione per molti anni, poiché la riparazione e la ricostruzione delle scuole possono richiedere ingenti risorse e tempo, con un impatto negativo significativo su bambini, genitori e insegnanti.

Le pubblicazioni israeliane +972Magazine e Local Call  hanno riferito il 24 luglio che l’esercito israeliano ha istituito “una cellula d’attacco speciale per identificare sistematicamente le scuole, definite ‘centri di gravità’, per poi bombardarle, sostenendo che gli agenti di Hamas si nascondono tra centinaia di civili”. Il rapporto ha osservato che gli attacchi “double tap” – secondi attacchi nello stesso luogo progettati per colpire i sopravvissuti all’attacco iniziale e i primi soccorritori – sono “diventati particolarmente comuni negli ultimi mesi, quando Israele bombarda le scuole a Gaza”.

In merito a decine di attacchi contro le scuole, l’esercito israeliano ha affermato che Hamas o altri combattenti palestinesi o centri di “comando e controllo” erano dispiegati presso la scuola, senza fornire informazioni specifiche. Human Rights Watch è a conoscenza di soli sette casi in cui l’esercito israeliano ha pubblicato nomi e fotografie di presunti membri di gruppi armati palestinesi che, a suo dire, erano presenti in una scuola al momento dell’attacco.

Dopo l’attacco del 6 giugno 2024 alla scuola al-Sardi, l’esercito israeliano  ha identificato 17 nomi di presunti combattenti. Tuttavia, un’analisi dei nomi condotta da Human Rights Watch ha rilevato che tre di questi appartenevano a persone apparentemente uccise in attacchi precedenti.

La presenza di gruppi armati palestinesi in una qualsiasi delle scuole attaccate non renderebbe necessariamente gli attacchi legali.leggi di guerravietare gli attacchi contro obiettivi militari se il danno previsto per i civili e gli oggetti civili è sproporzionato rispetto al guadagno militare previsto dall’attacco. 

ILleggi di guerrarichiedono inoltre, a meno che le circostanze non lo consentano, che le parti in guerra diano un “efficace preavviso” degli attacchi che potrebbero colpire la popolazione civile.

I gruppi armati schierati nelle scuole trasformate in rifugi metterebbero i civili a rischio inutilmente.leggi di guerraobbligare le parti in conflitto ad adottare tutte le precauzioni possibili contro gli effetti degli attacchi e ad evitare di collocare obiettivi militari in prossimità di aree densamente popolate. 

Gravi violazioni dellaleggi di guerrada parte di individui con intenti criminali, vale a dire deliberatamente o  sconsideratamente , sonocrimini di guerraGli individui possono anche essere ritenuti penalmente responsabili per aver assistito, facilitato, aiutato o favorito un crimine di guerra. Tutti gli Stati parte di un conflitto armato sono tenuti a indagare sui presunti crimini di guerra commessi dai membri delle proprie forze armate.

La  Dichiarazione sulle Scuole Sicure , un impegno politico internazionale sottoscritto da 121 Paesi, mira a proteggere l’istruzione in tempo di guerra rafforzando la prevenzione e la risposta agli attacchi contro studenti, insegnanti, scuole e università, anche evitando l’uso di strutture scolastiche per scopi militari. Sebbene Israele non vi abbia aderito, la Palestina ha sottoscritto la dichiarazione nel 2015.

I governi dovrebbero sospendere i trasferimenti di armi a Israele, dato il chiaro rischio che le armi possano essere utilizzate per commettere o facilitare gravi violazioni delladiritto internazionale umanitarioLa fornitura di armi da parte del governo degli Stati Uniti a Israele, che sono state ripetutamente utilizzate in attacchi contro scuole trasformate in rifugi e per portare a termine apparenticrimini di guerra, ha reso gli Stati Uniti  complici del loro uso illecito.

Il 10 giugno, la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sui Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme Est, e Israele  ha riferito che le autorità israeliane avevano “distrutto il sistema educativo di Gaza” e che i suoi attacchi ai siti educativi, religiosi e culturali nei Territori Palestinesi Occupati erano “parte di un assalto diffuso e incessante contro il popolo palestinese in cui le forze israeliane hanno commessocrimini di guerrae il crimine contro l’umanità dello sterminio.”

“Dopo quasi due anni di frequenti attacchi israeliani che hanno ucciso civili nelle scuole e in altri luoghi protetti, i governi che forniscono supporto militare a Israele non possono dire di non essere stati consapevoli delle conseguenze delle loro azioni”, ha affermato Simpson. “I governi dovrebbero sospendere tutti i trasferimenti di armi a Israele e adottare altre misure per prevenire ulteriori atrocità di massa”.

Attacchi israeliani alle scuole trasformate in rifugi

Human Rights Watch non ha potuto visitare i luoghi degli attacchi alla scuola femminile di Khadija e alla scuola C di al-Zeitoun perché le autorità israeliane hanno bloccato praticamente tutti gli ingressi a Gaza dall’ottobre 2023. Israele ha ripetutamente negato le richieste di Human Rights Watch di entrare a Gaza dal 2008. 

Scuola femminile Khadija, Deir al-Balah, 27 luglio 2024

Il 27 luglio 2024, a partire da poco prima di mezzogiorno e fino alle 15:00 circa, le forze israeliane hanno effettuato almeno tre attacchi aerei, due dei quali con munizioni statunitensi, sulla scuola femminile Khadija a Deir al-Balah, uccidendo almeno 15 persone. La Protezione Civile Palestinese a Gaza, un ente che fornisce servizi di emergenza e soccorso,  ha riferito che la scuola aveva ospitato circa 4.000 sfollati per molti mesi. Il direttore dell’Ospedale dei Martiri di al-Aqsa a Deir al-Balah, circa un chilometro a est della scuola,  ha affermato che la scuola disponeva di un “ospedale da campo” collegato al suo ospedale. Le segnalazioni dell’attacco hanno iniziato ad apparire sui social media poco prima di mezzogiorno.

La scuola è composta da cinque edifici adiacenti a un parco giochi, su un terreno di circa 5.000 metri quadrati. 

f680ddba-19d9-47d0-a855-e2940315a731
Un ragazzo in piedi sulle macerie della scuola Khadija a Deir al-Balah, nella zona centrale di Gaza, colpita da un attacco aereo israeliano il 27 luglio 2024, che ha ucciso almeno 15 palestinesi sfollati. © 2024 Rizek Abdeljawad/Xinhua tramite Getty Images

Human Rights Watch non ha trovato alcuna indicazione di un obiettivo militare all’interno o nelle vicinanze della scuola il giorno dell’attacco. Un’analisi dei social media sugli uomini che si sa essere stati uccisi nell’attacco e delle pagine online dei gruppi armati palestinesi e delle forze armate israeliane non ha mostrato alcuna prova della presenza di un gruppo armato palestinese nella scuola. L’esercito israeliano non ha risposto a una richiesta di Human Rights Watch di ulteriori informazioni sull’obiettivo.

Airwars , un’organizzazione non governativa che indaga sui danni ai civili nelle zone di conflitto,  ha esaminato i social media e altre fonti aperte e ha trovato i nomi di 15 persone uccise, tra cui 7 uomini, 4 donne e 4 bambini, oltre ad altre 2 persone senza i loro nomi completi. Airwars ha anche trovato i nomi completi di 9 persone ferite, tra cui 4 uomini, 2 bambini e 3 uomini di età sconosciuta. I morti e i feriti identificati appartengono a 18 famiglie. Human Rights Watch ha esaminato i social media e altre fonti aperte, ma non ha trovato ulteriori nomi.

Il Ministero della Salute di Gaza  ha dichiarato che l’attacco ha ucciso almeno 30 persone e ne ha ferite 100. Le vittime sono state  trasportate al vicino ospedale dei martiri di al-Aqsa.

Human Rights Watch ha parlato al telefono con un giornalista che si trovava in ospedale. Ha raccontato di aver sentito un’esplosione provenire dalla scuola verso mezzogiorno e di essere corso verso di essa. “Quando siamo arrivati, ho visto una scena orribile”, ha detto il giornalista. “Ho visto donne ferite, bambini, anziani e alcuni medici con le loro tute mediche. Le donne gridavano: ‘Dove sono i miei figli?’ oppure ‘Figlio mio, voglio mio figlio!'”.

Human Rights Watch ha parlato anche con un altro giornalista che si trovava a circa due chilometri dalla scuola quando, verso mezzogiorno, ha sentito cadere una bomba e poi un’esplosione. È arrivato a scuola circa 20 minuti dopo.

“Ho visto che un edificio di due piani sul lato est della scuola era stato completamente distrutto”, ha detto. “Riuscite a immaginare un edificio pieno di sfollati raso al suolo in un batter d’occhio? Ho visto persone con ferite gravi e altre più lievi, e poi ho visto resti umani a terra”.

Human Rights Watch ha verificato quattro video relativi agli attacchi alla scuola, sebbene nessuno mostrasse l’attacco iniziale. Il primo è stato  pubblicato sui social media dal canale di notizie saudita Asharq News, e un’analisi delle ombre nel video mostra che è stato girato intorno a mezzogiorno. Il video mostra danni e detriti nella parte settentrionale del campus, oltre a persone ferite che vengono trasportate fuori da uno degli edifici.

Human Rights Watch ha analizzato altri due video caricati sui social media il 27 luglio, girati tra le 14:00 e le 15:00. Il  primo riprende il momento in cui due munizioni colpiscono la scuola quasi simultaneamente. Il  secondo , girato a circa 200 metri a sud-est della scuola, riprende una forte esplosione, seguita da un gruppo di persone che corre attraverso una colonna di fumo verso il complesso scolastico. Mostra poi danni significativi alle parti occidentale e meridionale del campus scolastico, inclusi due edifici completamente distrutti. La telecamera inquadra poi un residuo di munizioni conficcato nel terreno al centro del complesso scolastico. 

Un  quarto video caricato sui social media da un account che aveva pubblicato altri due video dell’attacco mostra una munizione inesplosa all’interno di quella che si dice essere una delle aule della scuola. Human Rights Watch non è stata in grado di confermare dove sia stato girato il video o in quale momento, sebbene il colore degli infissi delle finestre divelti corrisponda al primo video della scuola. 

Sulla base di foto, video e resti di munizioni identificabili, tra cui un ordigno inesploso, Human Rights Watch ha stabilito che nell’attacco sono state utilizzate almeno due bombe di piccolo diametro GBU-39 lanciate da aerei. Queste munizioni sono prodotte dalla Boeing Company e trasferite in Israele con l’approvazione del governo statunitense nell’ambito dei programmi di vendita militare all’estero o di vendita commerciale diretta.

L’ufficio stampa di Gaza  ha riferito che i caccia israeliani hanno sganciato tre bombe sull’ospedale da campo della scuola. Un testimone  ha riferito al Washington Post che quattro proiettili hanno colpito la scuola, tutti intorno a mezzogiorno.

Un uomo che ha dichiarato di trovarsi a circa 500 metri dalla scuola verso mezzogiorno ha descritto due attacchi con l’impiego di più munizioni. Ha riferito a Human Rights Watch che, dopo il primo attacco, le autorità israeliane hanno contattato i residenti di una casa vicino alla scuola, intimando loro di “abbandonare la zona perché avrebbero colpito di nuovo la scuola”. Ha anche affermato che la seconda serie di attacchi ha coinvolto più bombe che hanno completamente distrutto l’edificio colpito durante i primi attacchi. 

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha inoltre  scoperto che l’esercito israeliano aveva diramato un avvertimento prima del secondo e del terzo attacco, “ma non del primo, in cui si sarebbe verificata la maggior parte delle vittime”.

Circa un’ora dopo l’attacco, l’esercito israeliano  ha dichiarato sul proprio canale Telegram di aver “colpito dei terroristi che gestivano un centro di comando e controllo di Hamas insediato all’interno della scuola Khadija, nel centro di Gaza”. L’esercito israeliano non ha fornito ulteriori dettagli.

Human Rights Watch ha esaminato i materiali online riguardanti i sette uomini uccisi da Airwars, nonché i canali Telegram e i social media associati dell’ala armata di Hamas, le Brigate Izz a-Din al-Qassam, e dell’ala armata della Jihad Islamica, la Brigata al-Quds. Questi gruppi annunciano spesso l’uccisione dei loro combattenti, ma nessuno dei due ha menzionato l’attacco. 

L’esercito israeliano non ha fornito alcuna informazione che dimostri la presenza di un obiettivo militare o di altro tipo all’interno o nelle vicinanze dell’edificio. L’esercito non ha inoltre spiegato perché non abbia fornito un preavviso efficace a coloro che si erano rifugiati nella scuola e ai residenti degli edifici vicini, invitandoli a evacuare prima dell’attacco iniziale di mezzogiorno.

Scuola Al-Zeitoun C, Gaza City, 21 settembre 2024

Il 21 settembre 2024, verso le 10:45, un attacco aereo israeliano colpì la scuola al-Zeitoun C nel quartiere al-Zeitoun della città di Gaza, uccidendo almeno 34 persone.

Human Rights Watch non ha trovato alcuna indicazione di un obiettivo militare all’interno o nelle vicinanze della scuola il giorno dell’attacco. Un’analisi dei social media degli uomini notoriamente uccisi nell’attacco e delle pagine online dei gruppi armati palestinesi e delle forze armate israeliane, nonché un’intervista con un uomo che viveva nella scuola, non hanno mostrato alcuna prova della presenza di un gruppo armato palestinese al momento dell’attacco. L’esercito israeliano non ha risposto a una richiesta di Human Rights Watch di ulteriori informazioni sull’obiettivo dell’attacco, né a una  richiesta di informazioni da parte dei giornalisti sull’obiettivo previsto. La BBC  ha riferito che una fonte anonima ha affermato che l’attacco aveva preso di mira e ucciso “una figura locale di Hamas”, senza fornire ulteriori dettagli.

La Protezione Civile Palestinese a Gaza  ha riferito che la scuola ospitava “migliaia” di sfollati. L’ufficio stampa di Gaza  ha affermato che molti degli sfollati erano vedove e orfani che hanno anche ricevuto piccoli pagamenti in denaro per coprire le spese alimentari.

334becc1-8daf-4520-a899-7c5c3456256d
La scuola Al-Zeitoun C di Gaza City, colpita da un attacco aereo israeliano il 21 settembre 2024, uccidendo almeno 34 palestinesi sfollati, tra cui almeno 21 bambini, che vi si erano rifugiati. © 2024 Dawoud Abo Alkas/Anadolu tramite Getty Images

La scuola Al-Zeitoun C fa parte di un complesso di tre scuole, che comprende la scuola elementare maschile Al-Zeitoun A/B e la scuola elementare maschile Al-Falah B, nonché la scuola preparatoria maschile Al-Falah B. La scuola Al-Zeitoun C è composta da due edifici principali e da diverse strutture più piccole, tutte situate su un terreno di circa 5.000 metri quadrati.

Airwars ha esaminato i social media e altre fonti pubbliche per reperire informazioni sull’attacco, trovando i nomi completi di 23 persone uccise appartenenti a 9 famiglie, tra cui 3 uomini, 4 donne e 16 bambini.  Il Ministero della Salute di Gaza e l’ Ufficio Stampa di Gaza  hanno dichiarato che le vittime sono state 22, tra cui 6 donne e 13 bambini.

Human Rights Watch ha esaminato i social media e altre fonti aperte e ha trovato i nomi completi di altre quattro persone uccise. Tra queste, una donna, due ragazzi e una ragazza di età sconosciuta.

Human Rights Watch ha parlato con un uomo che si trovava nella scuola al momento dell’attacco e che ha dichiarato che l’attacco ha ucciso otto membri della sua famiglia, uno dei quali era un ragazzo presente nella lista di Airwars. Gli altri sette erano tre donne, tre bambini e un uomo, non identificati da Airwars.

Human Rights Watch ha esaminato i social media alla ricerca di riferimenti ai quattro uomini indicati da Airwars come uccisi nell’attacco e non ha trovato alcun legame con alcun gruppo armato. 

La Protezione Civile Palestinese a Gaza  ha dichiarato che una delle donne uccise era incinta e che circa 30 persone sono rimaste ferite, tra cui 9 bambini a cui è stato necessario amputare gli arti. Un video pubblicato sui social media dal canale di notizie saudita Asharq News e analizzato da Human Rights Watch mostra un soccorritore in piedi fuori da uno degli edifici scolastici con in mano quello che il canale ha definito un feto morto.

Le vittime sono state  trasportate all’ospedale battista arabo al-Ahli nella città di Gaza. 

Human Rights Watch ha analizzato altri due video delle conseguenze dell’attacco, caricati sui social media il 21 settembre. Human Rights Watch ha confermato le geolocalizzazioni inizialmente determinate da due ricercatori open source,  Anno Nemo e  Jack Dev . 

Un video, girato intorno alle 11:30, mostra due uomini che trasportano due bambini feriti e insanguinati attraverso il campus. Alcune persone circondano anche due bambini gravemente feriti, uno dei quali è immobile, e cercano di medicare le loro ferite. Un secondo video mostra il cortile della scuola dopo lo sciopero, decine di persone all’ingresso di un edificio sul lato ovest del campus e poi diversi bambini morti.

L’uomo che ha perso otto familiari ha dichiarato che quattro munizioni hanno colpito la scuola senza preavviso. Un altro testimone  ha raccontato a un giornalista di aver visto delle esplosioni quando due munizioni hanno colpito il complesso. Una donna che viveva nella scuola e che era presente durante l’attacco  ha dichiarato a un altro giornalista che “all’improvviso i missili hanno iniziato a piovere su di noi, senza alcun preavviso”.

Tre  fotografie caricate su X con il logo di Quds News Network mostrano un bambino che tiene in mano tre resti di munizioni identificabili in una delle aule. Sulla base di queste immagini, Human Rights Watch ha stabilito che almeno una bomba di piccolo diametro GBU-39 di fabbricazione statunitense ha colpito direttamente almeno uno degli edifici scolastici.

Il testimone che ha perso otto familiari ha affermato di non aver visto armi o materiale militare nella scuola e che non c’erano militanti, “solo civili in cerca di sicurezza”.

L’analisi condotta da Human Rights Watch sui materiali online relativi agli uomini elencati da Airwars come uccisi in ciascuno degli attacchi non ha trovato prove che fossero combattenti. Human Rights Watch ha esaminato i canali Telegram e i social media associati delle ali armate di Hamas, le Brigate Izz a-Din al-Qassam e la Brigata al-Quds della Jihad Islamica. Nessuno dei due ha fatto menzione dell’attacco.

I video analizzati da Human Rights Watch sulle conseguenze degli attacchi alla scuola non indicavano la presenza di alcun gruppo armato palestinese o di equipaggiamenti militari all’interno o nelle vicinanze dell’edificio al momento dell’attacco.

Il giorno dell’attacco, l’esercito israeliano  ha dichiarato di aver “condotto un attacco mirato contro i terroristi che operavano all’interno di un centro di comando e controllo di Hamas… insediato all’interno di un complesso che in precedenza ospitava la scuola Al-Falah”. Secondo una persona con una conoscenza approfondita delle scuole che ha parlato con Airwars, la scuola elementare maschile B di al-Falah e la scuola preparatoria maschile B di al-Falah si trovano a circa 200 metri dalla scuola C di al-Zeitoun, separate dalla scuola A/B di al-Zeitoun. I media palestinesi  hanno menzionato un attacco israeliano alla scuola di al-Falah lo stesso giorno, che avrebbe causato feriti. L’esercito israeliano non ha rilasciato una dichiarazione separata in merito all’attacco alla scuola C di al-Zeitoun e non ha fornito alcuna informazione che dimostri l’esistenza di un obiettivo militare in quel luogo. L’esercito non ha inoltre spiegato perché non abbia fornito un efficace preavviso ai residenti della scuola C di al-Zeitoun e degli edifici vicini, affinché evacuassero prima dell’attacco iniziale. 

Una ragazza sopravvissuta all’attacco  ha dichiarato alla BBC: “Cosa abbiamo fatto da bambini? Ci svegliamo e andiamo a dormire terrorizzati. Almeno proteggete le scuole; non abbiamo scuole né case: dove andiamo?” 

Categorie
Costruttori di ponti

L’UMANITÀ NON È VINTA

L’UMANITA’ NON E’ VINTA 

A quanti hanno eletto il domicilio a Gaza 

Carissimi,

Netanyahu è stato messo in difficoltà dal suo esercito, da gran parte della società israeliana, da diversi governi che si sono svegliati, dal crescente sdegno dell’opinione pubblica internazionale e dalla solidarietà con le vittime dei domiciliati a Gaza, e ha annunciato l’invasione ma non l’annessione di Gaza, la fine e la continuazione del “lavoro”, la sospensione dell’aggressione a patto della resa, l’assoggettamento dei palestinesi ma scaricandolo  sugli Stati arabi. Segno che l’umanità non è vinta.

Sul significato dell’elezione del domicilio a Gaza vi trascriviamo qui l’intervista a Raniero La Valle pubblicata dall’ “Unità” del 7 ottobre:

 «Parla lo scrittore e saggista Raniero La Valle

Su Gaza l’Europa ha perso testa e cuore, riconoscere oggi la Palestina è vano perché Israele l’ha reso impossibile

«L’iniziativa di prendere il domicilio simbolico nella Striscia è un atto di speranza: un popolo, ucciso, risorge. L’Europa? Ha perso la testa e anche il cuore. Riconoscere lo stato palestinese è vano nella realtà»

INTERVISTA di Umberto De Giovannangeli
6 Agosto 2025 alle 10:00 

Raniero La Valle, scrittore saggista, politico, una delle grandi firme di una Rai che, ahinoi, non c’è più. La Valle ha scritto un bellissimo libro Gaza delle genti. Israele contro Israele (Bordeaux, 2024), ed è tra gli ispiratori di importanti iniziative a favore del popolo palestinese. Ne parla con l’Unità. 

Eleggere il proprio domicilio a Gaza. L’iniziativa che la vede tra i promotori sta avendo un importante riscontro. Quale ne è il senso nel momento in cui Benjamin Netanyahu annuncia che Israele occuperà la Striscia di Gaza? 

Il genocidio è compiuto, Netanyahu ha deciso di “finire il lavoro”. Gaza è condannata. La decisione viene da lontano, sta scritta nella legge costituzionale del 2018, altrimenti non si andava a festeggiare i “rave party” sul confine di Gaza. L’iniziativa di prendere il domicilio simbolico a Gaza è un atto di speranza contro la speranza. Un popolo, ucciso, risorge. La proposta è partita da un piccolo gruppo di persone la sera del 23 luglio. Nella notte giunsero 50 adesioni, il 24 ne arrivarono 1.500, il 25 luglio 2.318, il 26 furono 1960, al 29 luglio i nomi erano arrivati a 5235, tutti pubblicati sul sito “Prima loro”; poi abbiamo perduto il conto, perché per mille rivoli, dai commenti agli articoli del sito, ai Facebook, ai social, se ne sono aggiunti altre migliaia, e ne giungono ancora (lo si può fare all’indirizzo: domiciliatiagaza@primaloro.com). Ciò vuol dire che la proposta ha risposto a un’esigenza diffusa, molto spesso angosciata, di gridare contro il genocidio, di fare qualcosa, anche se solo di poter dichiarare la propria immedesimazione nella tragedia delle vittime, contro l’omertà dei governi, la complicità dei giornali, l’indifferenza dei partiti. Era come se tutti ricordassero il monito lanciato da un martire dei nazisti, il pastore protestante Dietrich Bonhoeffer, quando dal carcere di Tegel aveva ammonito: “Chi non grida per gli Ebrei, non può cantare il gregoriano”, ossia non si può tornare alle cure e alla vita quotidiana se non si grida contro lo sterminio; così ora non si può assistere ogni sera, alla televisione, ai bambini amputati, affamati, scheletriti, alle folle prese a fucilate con le scodelle vuote in mano in cerca di cibo, alla folla degli uccisi, degli scacciati, dei profughi senza fare altro che assistere, o passare alla pubblicità. L’obiezione è che l’elezione di domicilio a Gaza è solo simbolica, non vuol dire trasferire armi e bagagli a Gaza, come irridono, per criticare sui giornali questa iniziativa, gli analfabeti dell’umano. Tutti sanno che il domicilio è una cosa diversa dalla residenza; lo dice anche il Codice civile, il domicilio è il luogo di elezione che uno dichiara come “sede principale dei suoi affari e interessi”, ed eleggerlo lì dove non si abita non comporta né obblighi né formalità, mentre la residenza è lì dove si ha la residenza abituale. Ma oggi l’irrompere di questo simbolo, pur in un ambito ristretto come il nostro, è il sintomo che ove lo si chiedesse, milioni di persone in tutto il mondo direbbero che Gaza è il proprio luogo d’elezione, l’oggetto principale delle proprie cure; come alcuni ci hanno scritto: “Sotto le macerie batte il mio cuore insieme ai familiari palestinesi sepolti vivi” o “la situazione di quei disperati, prigionieri, uccisi ed affamati, mi impedisce di dormire serenamente”. 

C’è chi potrebbe obiettare: sono solo gesti simbolici

I simboli hanno una carica potente, perché vogliono dire mettere insieme una realtà e la sua figura. E se la figura fosse che prima centinaia, poi migliaia, poi innumerevoli persone in tutto il mondo si unissero alla popolazione di Gaza, così da far diventare idealmente i figli e abitanti di quella terra numerosi “come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare”, come degli Ebrei dice la Bibbia, ciò trasposto nella realtà renderebbe impossibile per chiunque pensare di sradicarli, di ucciderli, o di trasformarli in servitori di ricchi bagnanti. E verrebbe così annunziata la sconfitta di tutti i poteri indiscriminati e genocidi. Questo è il significato di questa iniziativa, vista dalla parte delle vittime e di quanti prendono parte per loro. Ma per Israele il significato è ancora maggiore, perché il segnale di questa condanna di massa di quanto esso sta compiendo a Gaza rivela la profondità dell’abisso in cui sta cadendo. Anzitutto è caduta la barriera linguistica che artatamente Israele aveva eretto per sventare ogni critica alle sue politiche; l’espediente era che non si potesse parlare di genocidio, e che ogni dissenso dalla condotta di Israele fosse un rigurgito di antisemitismo (la stessa Onu come “palude dell’antisemitismo”, nelle parole di Netanyahu all’Assemblea delle Nazioni Unite). Era stato il ministro degli Esteri Abba Eban che, dopo la guerra dei Sei Giorni, aveva scritto a tutte le ambasciate di opporre l’accusa di antisemitismo a ogni dissociazione dalle scelte dello Stato ebraico. Ed ora quest’argine è caduto, per mano di Netanyahu, che degli antisemiti è il peggiore, il quale ha trascinato nell’orrore e nel discredito lo Stato di Israele e messo a rischio anche la diaspora ebraica, che non ce la fa a esprimere il proprio dissenso da lui in modo politicamente efficace. Ma al genocidio ormai si grida nello stesso Israele. David Grossman, che alle guerre di Israele ha sacrificato un figlio, ora dice: “Voglio parlare come una persona che ha fatto tutto quello che poteva per non arrivare a chiamare Israele uno Stato genocida. E ora, con immenso dolore e con il cuore spezzato, devo constatare che sta accadendo di fronte ai miei occhi. Genocidio. È una parola valanga: una volta che la pronunci, non fa che crescere, come una valanga appunto”.

Non solo Grossman…

Il genocidio è ammesso anche da due organizzazioni israeliane per i diritti umani, B’Tselem e Physicans, che denunciano e descrivono nei loro rapporti per “for Human Rights” un “intento genocida in tutto e per tutto”. E ancora più lancinante per il governo di Israele è la rivolta di piazza, gli israeliani che agitano cartelli con la scritta “Libero il ghetto di Gaza”, le madri che dicono: “quando mia figlia mi chiederà: e tu dov’eri?” potrò dire “io c’ero”, e le donne che fanno chiasso con le pentole vuote come gli affamati di Gaza, come ha documentato Lucia Goracci, l’inviata del Tg3 in Israele. Un altro rovescio per il governo Netanyahu e i suoi accoliti, più o meno “religiosi” o “ortodossi”, è l’eterogenesi dei fini che si è realizzata nel perseguire l’azione su Gaza. La Striscia di Gaza è stata una preoccupazione costante di Israele, perché, con la sua popolazione esclusivamente palestinese, rende difficile una colonizzazione o uno sbriciolamento come in Cisgiordania. Per rendere sicuro Israele dal pericolo rappresentato dalla spina nel fianco di Gaza, la prima scelta del governo era stata perciò di isolarla, ed evitare ogni contiguità o rapporto con i palestinesi, al punto che Sharon ordinò ai coloni già insediativisi di ritirarsi e rientrare in Israele: ciò provocò una sollevazione contro di lui dei rabbini che vietarono all’esercito di obbedirgli, e dei coloni e dei sionisti per i quali Israele non doveva rinunziare a nessun lembo della terra di Israele, fino al punto che Sharon fu raffigurato con la divisa da nazista e ripudiato. Netanyahu e i suoi governi hanno fatto invece la scelta opposta: si sono compromessi con Hamas coadiuvandola per usarla contro l’ANP e, quanto alla contaminazione con i palestinesi, gli Ebrei, anche non israeliani, sono andati a fare i loro rave party fin sul confine di Gaza, ciò che era una provocazione. Ne è seguito lo scempio del 7 ottobre, usato poi da Israele per vendere al mondo, sempre più inorridito, la sua soluzione finale: così Gaza, da sterilizzata che era, è diventata la pietra d’inciampo, il massimo rischio nel quale sta precipitando Israele. 

Macron ha annunciato il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte della Francia, così la Gran Bretagna del premier britannico Keir Starmer e altri Paesi europei. L’Italia, invece, non lo farà, mentre continuiamo a vendere armi a Israele. 

Forse di più è quello che ha fatto Mattarella, dicendo che in ciò che Israele sta compiendo a Gaza «è difficile non ravvisare l’ostinazione a uccidere indiscriminatamente». Gli ha risposto il Presidente israeliano Herzog, che ha detto di nutrire grande rispetto per Mattarella, ma “Israele non ha alcuna ‘intenzione di uccidere indiscriminatamente’”. Eppure, lo stesso Herzog, il 18 marzo scorso quando Israele ruppe la tregua durata due mesi a Gaza, aveva detto che era “impossibile non rimanere profondamente turbati per quello che sta accadendo sotto i nostri occhi” e di essere profondamente preoccupato per il suo “impatto sull’equilibrio della nostra Nazione”. È impensabile riprendere i combattimenti per portare a compimento la sacra missione di riportare in patria gli ostaggi. 

Lei è stato anche senatore della Repubblica. Cosa ha provato quando nell’Aula della Camera dei deputati Matteo Salvini ha ricevuto il premio Italia-Israele? 

Mi pare una cosa priva della minima importanza. Se non me lo diceva lei, neanche lo sapevo.

A Gaza, oltre l’umanità, è morto anche l’ultimo sussulto di dignità dell’Europa? 

L’Europa ha perso la testa ed anche il cuore. Ora tre Stati dicono di voler riconoscere lo Stato palestinese. Va benissimo come pressione politica, ma è del tutto vano nella realtà, perché Israele lo ha ormai reso fisicamente impossibile. Ha ragione la Meloni quando dice che non si può riconoscere uno Stato che non c’è. Ha ragione anche Caracciolo quando dice: “Si va dritti alla soluzione finale secondo Netanyahu: noi o loro. Illusione: sarà loro e noi. I vinti palestinesi e gli israeliani vincitori barricati nel piccolo Grande Israele allargato a Gaza e Cisgiordania più coriandoli di Siria e Libano. Giungla nella giungla. Noi, “neo-domiciliati a Gaza”, diciamo che “se dopo il crimine ci fosse un futuro”, la soluzione sarebbe la riconciliazione tra Israeliani e Palestinesi, il perdono come culmine dell’umano, l’abolizione volontaria e consapevole della memoria del male ricevuto, la costituzione di un ordinamento, uno o due Stati, con pieni diritti in ciascuno per ambedue i popoli, secondo quanto essi stessi decideranno. Una sorta di “Stati Uniti di Gerusalemme” in una comunità mediterranea ed europea»  

Con i più cordiali saluti, 
da “Prima Loro”.

https://www.primaloro.com/




Prima Loro newsletter
Categorie
Costruttori di ponti

Il Rapporto Raleigh – Newsletter mensile del CEO di ACLED, Prof. Clionadh Raleigh – luglio 2025

Clionadh Raleigh, ACLED <clionadh@acleddata.com>

mer 30 lug, 14:15

Rapporto Raleigh – luglio 2025

L’ACLED introduce cinque nuove categorie di conflitto e si rammarica della perdita di José Luengo-Cabrera.

30 luglio 2025

Il nostro nuovo sito web, creato per offrire un’esperienza più veloce, intuitiva e accessibile ai nostri utenti globali, è ora online https://acleddata.com/! Come parte di questa transizione, dovrete creare un account o registrarlo nuovamente cliccando su questo link https://acleddata.com/user/re-activate per continuare ad accedere ai dati, alle analisi e agli strumenti di ACLED.

Cari lettori,

“Vieni a trascorrere la notte che meriti.” – Nonna Macron

Benvenuti all’edizione estiva del Raleigh Report. Preavviso: questo è un lungo resoconto! Mi scuso! Ho due messaggi importanti. Il primo riguarda le nostre nuove categorie di conflitto, e il secondo riguarda un caro membro scomparso della nostra comunità.

Categorie di conflitto

Gli osservatori dei conflitti sono spesso interessati a conoscere la loro entità, e l’ACLED fornisce le risposte nel suo  Indice , che documenta un drastico aumento degli incidenti di conflitto negli ultimi cinque anni (dal 2019 al 2024). Ci viene anche spesso chiesto: “Quanti conflitti ci sono?”, che a mio avviso suona simile alla domanda: “Quanto è lungo uno spago?”. “Quanti conflitti” presuppone che si presentino tutti allo stesso modo, con confini e obiettivi chiari e identificabili. Ma i conflitti hanno confini molto malleabili; molti conflitti hanno punti di inizio e fine vaghi; i conflitti possono anche avere pause prolungate; i principali gruppi in lotta possono cambiare; oppure la violenza può diffondersi in nuove aree e assumere nuove caratteristiche. Questi cambiamenti molto comuni creano forme di violenza nuove e diverse, ma sono tutte caratteristiche dello stesso conflitto? E cosa perdiamo presumendo che tutti i conflitti si presentino allo stesso modo? Inoltre, perché non dovremmo riconoscere il cambiamento e le differenze?

Gli analisti hanno spesso idee diverse su come definire un conflitto, e queste possono differire sostanzialmente. Un analista potrebbe vedere il recente accordo di pace tra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo come la fine di un conflitto iniziato nel 1994, suggerendo che possa essere definito come un conflitto durato 31 anni, con significativi cambiamenti interni ma mantenendo il coinvolgimento del governo ruandese e del governo della RDC. Un altro analista potrebbe obiettare che la firma di questo accordo di pace ignora come la maggior parte degli episodi di conflitto che si verificano nella RDC non coinvolgano né il Ruanda, né i gruppi sostenuti dal Ruanda, né le forze di sicurezza della RDC. Pertanto, è probabile che il conflitto nella RDC continui, sebbene attraverso molti gruppi armati frammentati. Il punto generale è che consentire a un analista di selezionare i propri parametri necessari crea possibilità di analisi molto più ampie e accurate, ma limita la comparabilità dei “numeri del conflitto”.

In altri casi, gli analisti spesso designano l’attività violenta sotto una specifica accezione. Esistono differenze generalmente note tra “guerra civile” e “terrorismo” e tra una “gang” e un “insorto”, ma dove vengano tracciati questi confini è oggetto di ampio dibattito. Come sapranno i lettori, l’ACLED suddivide la violenza in eventi distinti che coinvolgono attori specifici e tipologie generali di gruppo, e questo consente alle persone di aggregarsi come e quando desiderano.

Ma desideriamo anche rendere i dati e le risorse ACLED il più fruibili possibile. Per farlo, abbiamo sviluppato categorie di conflitto, che funzionano come meta-eventi. Questo mese pubblichiamo cinque nuove categorie di conflitto che saranno disponibili in aggiunta alle tipologie di evento. Queste categorie organizzano gli eventi in un’ampia dinamica di conflitto, come repressione, ribellione, terrorismo, impegno militare straniero e atrocità. Utilizziamo criteri coerenti e trasparenti basati sulla tipologia di evento, sul comportamento degli attori e su altri attributi chiave dei dati. Gli eventi rilevanti dal 2020 e quelli futuri saranno etichettati con la categoria più ampia in cui rientrano. Le categorie non si escludono a vicenda: ad esempio, un atto di repressione può anche essere considerato un’atrocità, ecc. Presumiamo che tali categorie possano espandersi in futuro per rendere i microdati più fruibili e pertinenti per i nostri membri. Una discussione più approfondita su queste categorie di conflitto è disponibile sul nostro nuovo sito web (attivo dal 30 luglio!), insieme a informazioni specifiche su come vengono definite e codificate. Tutta la comunità ACLED potrà scaricare i file degli eventi associati a ciascuna delle nuove categorie di conflitto. 

Invece di esaminare i dettagli di queste diverse categorie, permettetemi di raccontarvi qualcosa di interessante su ciascuna tipologia di conflitto. Per iniziare, queste cinque categorie rappresentano complessivamente il 50% di tutti i dati dell’ultimo anno. Considerando che, nel 2024, oltre il 6% delle persone a livello globale è stato esposto a questi tipi di violenza. Cosa significa? 

Di fatto, il 12% di tutta la violenza di Stato che raccogliamo e copriamo è considerato repressione, il che comprende la violenza di Stato contro civili e manifestanti ed è spesso indice di più ampie violazioni dei diritti civili. Dal 2020, il tasso globale di repressione è aumentato costantemente, raggiungendo il picco nel 2024, con il Myanmar che ha registrato il numero più elevato di episodi.

L’insurrezione include attività ribelli di lunga durata, da battaglie e bombardamenti a rapimenti, saccheggi e movimenti strategici. Molte delle insurrezioni più lunghe del mondo si verificano in Africa, con un crescente ricorso a raid aerei e attacchi a distanza. 

Questo è forse il concetto che più mi sta a cuore, dato che gli analisti dei conflitti sono ossessionati dalle insurrezioni! Abbiamo bisogno di un’altra definizione? Sì! Principalmente per riconoscere che molte azioni dei gruppi ribelli avvengono al di fuori del tradizionale conflitto tra insorti e forze statali. La nostra categoria di conflitto insurrezionale cattura l’intera portata dell’attività dei gruppi ribelli. Ben oltre le battaglie tra ribelli e governo e gli attacchi ai civili (che rappresentano il 73% di tutta l’attività ribelle), assistiamo a battaglie con fazioni e altri gruppi ribelli, milizie e bande; diversi tipi di violenza e attacchi (bombardamenti, aggressioni, saccheggi, violenza sessuale); ed eventi non violenti (arresti, accordi e creazione di basi militari). Una guerra civile è un altro mondo: un altro sistema di regole e conflitti, che spesso opera all’interno e parallelamente a un sistema governato dallo stato. Catturare questa realtà, e quanto sia prolifica e mutevole questa forma di conflitto, produrrà analisi più accurate e fruibili.

Le atrocità riflettono uccisioni civili intenzionali e su larga scala. Queste sono aumentate dopo il 2022, soprattutto a Gaza e in alcune parti dell’Africa, e sono spesso legate a sfollamenti e crisi umanitarie. Nel 2024, si sono verificate 1.216 atrocità segnalate, che hanno causato almeno 24.000 vittime in uccisioni di massa. Identificare e monitorare le atrocità è fondamentale per l’allerta precoce, l’assunzione di responsabilità e la risposta umanitaria, ma può anche contribuire a contrastare la disinformazione sulle atrocità e su chi le commette. 

Da sempre amante delle punizioni, mi intrometto nei dibattiti sul terrorismo. Definiamo il terrorismo in base a ciò che fanno i gruppi non statali – le loro azioni – e non in base all’ideologia, alle minacce o allo status precedente. Questa definizione presenta diverse qualità che la differenziano dalle altre: 1) È agnostica rispetto a qualsiasi ideologia o rivendicazione (ad esempio, i cartelli hanno la stessa probabilità di essere definiti gruppi terroristici quanto i jihadisti); 2) è basata sull’azione piuttosto che sulla minaccia (un gruppo ha o non ha un tasso di attacchi contro i civili superiore alla media rispetto ad altri gruppi simili); 3) i gruppi possono entrare e uscire dall’etichetta di “terroristi” durante i loro anni di attività, cambiando strategie o intenzioni. Ad esempio, spesso i gruppi armati registrano  tassi molto elevati di attacchi contro i civili durante il loro periodo iniziale perché sono deboli e non possono impegnare le forze armate. Possono cessare questa attività man mano che si sviluppano. 4) I paesi potrebbero non avere gruppi terroristici operativi nel loro territorio ogni anno o diversi gruppi designati come terroristi, a seconda della media globale di quell’anno e del tasso di attività in quel paese. Grazie al nostro approccio, possiamo fornire un resoconto più accurato del numero di gruppi terroristici attualmente attivi in tutto il mondo, che, al momento in cui scriviamo, comprende 57 gruppi identificati, e 105 gruppi totali se includiamo anche le bande organizzate non identificate che perseguitano i civili (similmente a come i  “lupi solitari” negli Stati Uniti sono sempre più accusati di terrorismo). La notizia peggiore è che questi numeri stanno aumentando nel tempo. 

Infine, volevamo quantificare l’impressione che ci sia più conflitto tra le forze armate statali rispetto al recente passato. In effetti, c’è. L’impegno militare all’estero si riferisce a tutte le azioni violente e agli sviluppi strategici commessi dalle forze statali al di fuori del proprio territorio.

Una percentuale molto elevata di eventi raccolti da ACLED coinvolge il coinvolgimento di uno Stato straniero. Questa percentuale è in crescita sostanziale dal 2022, quando il 18% di tutti gli eventi violenti coinvolgeva un governo straniero che agiva a livello internazionale. Ora, questa percentuale supera il 30%. Per mettere in prospettiva, un terzo di tutti gli eventi violenti che si verificano attualmente nel mondo coinvolge un esercito internazionale. Sebbene Russia e Israele costituiscano la stragrande maggioranza dei casi, la modalità prevalente di questi attacchi sono attacchi aerei e bombardamenti, e questo è ormai piuttosto diffuso.

Queste categorie non sostituiscono i dati di base, ma li arricchiscono. Spero che vi aiutino a individuare modelli, monitorare i cambiamenti e orientarvi nella complessa realtà dei conflitti moderni.

José

Molti lettori sapranno ormai che il mese scorso abbiamo perso un membro meraviglioso e vitale della nostra comunità, José Luengo-Cabrera, deceduto per complicazioni respiratorie. Era così giovane e pieno di vita: si immergeva praticamente nelle conversazioni! José era senza dubbio il membro più popolare della comunità degli analisti dei conflitti. Aveva da poco iniziato a lavorare presso la Banca Mondiale, collaborando con il meraviglioso Gary Milante, e siamo doppiamente dispiaciuti che questo duo non possa raccogliere i frutti del loro lavoro congiunto.

Perdere un collega professionista implica perdite per il futuro e per il settore, ma per chi ha lavorato con José, va oltre. Era una rete di connessioni: conosceva tutti! E, cosa più importante, era amichevole con tutti. Tutti coloro con cui ho corrisposto dopo la sua tragica scomparsa hanno detto di aver parlato di recente con lui, il che dimostra l’incredibile abilità sociale di José. I suoi ultimi messaggi, oltre alle sue continue imitazioni di Trump, parlavano di come avrebbe iniziato a lavorare in Irlanda. Includevano video di homesteading! Sembrava pittoresco e molto tipico di José lanciarsi a capofitto in uno stile di vita insolito per provarlo.  

Rendeva divertenti anche le riunioni più noiose e si divertiva a partecipare a un dibattito stimolante su come qualcosa avrebbe dovuto svilupparsi, cosa fosse importante e (spesso) cosa avrei dovuto cambiare. Collaborava con tutti e per tutte le  testate che leggevamo regolarmente. Ancora una volta, era il punto di contatto della nostra comunità. Vorrei menzionare in particolare  le sue bellissime visualizzazioni per The Economist .  

Oltre alla perdita personale per tutti coloro che lo conoscevano professionalmente, noi come organizzazione abbiamo perso il nostro  designer preferito : più persone hanno compreso il conflitto grazie al modo in cui José ha applicato i dati ACLED. Non potremmo essere più in debito con lui per il servizio reso all’organizzazione nel suo complesso, e ci mancherà terribilmente. Restate sintonizzati per scoprire come desideriamo commemorare l’influenza di José sui nuovi giovani talenti nel nostro campo.

Note e nozioni

Una versione di questa newsletter per la fine dell’estate conterrebbe solo un’analisi di quanto accade al  Chicken Shop Date, così come mi viene raccontato dai bambini, quindi ve lo risparmierò.

Questo  articolo su Macron di Emmanuel Carrère è pura perfezione, così come lo è l’uomo stesso, che adoro. È generoso, perspicace e molto… sensoriale.

Le mie notizie irlandesi sono forse troppo locali per essere utili a tutti, ma ha fatto molto caldo (il sole spaccava le pietre, come si dice) e ci saranno le elezioni presidenziali. Non sono entusiasta dell’attuale presidente, dato che amava molto fare dichiarazioni ottuse su clima e conflitti e fare sfoggio di sé in televisione. Un presunto salvatore, Joe Duffy (una versione molto irlandese di Joe Rogan, che tra l’altro è molto popolare in Irlanda), si è ritirato dalla corsa alla presidenza. Ciononostante, incoraggio chiunque possa a provarci, anche solo per evitare che  questo opportunista vinca (ha, come dice lui, il sostegno di “alcuni individui molto autorevoli”), e potreste diventare presidente  senza che nessuno se ne accorga .

Guarda ! Che incredibile! Nessuna notizia sui cammelli è troppo piccola.

Ho trovato  tutto questo molto toccante; la sua preoccupazione è palpabile.

L’  agosto dei pasti ! Adoro il pranzo perché nessuno mi fa domande e io non mi chiedo nulla. 

Per quanto riguarda i libri di questo mese, ce ne saranno molti. Il mio obiettivo è concludere con “Conflict” di David Petraeus e Andrew Roberts, che è una magistrale panoramica delle guerre recenti. È davvero molto dettagliato e coinvolgente! Non c’è grande simpatia tra Petraeus e Donald Rumsfeld, che lui definisce praticamente un incompetente. 

Ho ascoltato qualche libro mentre guardavo le partite di sport per bambini, tra cui “The Haves and Have-Yachts” di Evan Osnos. Ne esci con il non piacere a nessuno e con l’apprezzamento che la tua opinione sui mega-ricchi è del tutto giustificata. “How Not to Be a Political Wife” di Sarah Vine (a Michael Gove) ti fa non amare nessuno, inclusa l’autrice e gli innocenti civili che ti circondano. Sto lanciando qualche occhiata di traverso a “On Xi Jinping” di Kevin Rudd, che ho comprato a un semaforo. Non so se ho la forza di arrivare alla fine. Solo il tempo ce lo dirà. 

Webinar

Una sala degli specchi nel Mar Rosso: dichiarazioni e azioni degli Stati Uniti e degli Houthi

Mentre le tensioni regionali continuano ad aumentare in Medio Oriente, la crisi del Mar Rosso rimane un punto critico. Nonostante il cessate il fuoco tra Stati Uniti e Houthi, la situazione di stallo è tutt’altro che superata. Il 1° luglio, ACLED ha ospitato un webinar per discutere della crisi del Mar Rosso, delle più ampie dinamiche regionali e delle più profonde realtà che si celano dietro le rivendicazioni pubbliche. Con molteplici fronti attivi in Medio Oriente, il webinar ha esplorato il divario tra retorica e azione, nonché le implicazioni per la stabilità regionale. È possibile visualizzare la registrazione del webinar  qui . 

ACLED nei media

  • I dati di ACLED sul Medio Oriente sono stati recentemente pubblicati su  Al Jazeera ,  The Economist e sul quotidiano austriaco  Der Standard . Ameneh Mehvar, analista senior di ACLED per il Medio Oriente, ha inoltre parlato a  Newsweek della violenza dei coloni in Cisgiordania, mentre Salma Eissa, la nostra responsabile della ricerca sul Medio Oriente, è stata citata in un  articolo di El Diario Salvador sulla proposta di cessate il fuoco a Gaza.
  • Il New York Times ha citato i dati dell’ACLED sulla violenza contro i funzionari locali negli Stati Uniti.
  • L’analista senior della regione Asia-Pacifico Su Mon è stata menzionata sulla  Deutsche Welle in un articolo che citava il suo rapporto  The war from the sky: How drone warfare is shaping the conflict in Myanmar .
  • Il rapporto dell’analista senior per l’Africa Ladd Serwat  sull’ADF è stato ripreso dall’Africa  Defense Forum .
  • La  BBC ha raccolto i dati ACLED su JNIM in Mali.
  • Il mese scorso,  Radio Free Europe ha utilizzato i dati ACLED del nostro Ukraine Conflict Monitor per evidenziare un aumento degli attacchi aerei e dei droni russi.
  • Il nostro rapporto annuale  sulla violenza contro i funzionari locali è stato presentato in diversi organi di stampa da quando è stato pubblicato a metà giugno, tra cui  Radio Vaticana ,  La Presse in Canada,  L’Espresso in Italia, El Financiero televisión in Messico e Bloomberg, per citarne alcuni.

Impegni esterni

Sempre in merito al nostro rapporto sulla violenza contro i funzionari locali: all’inizio di questo mese, il responsabile analisi di ACLED, Andrea Carboni, ha partecipato all’evento di lancio del rapporto annuale di Avviso Pubblico “Amministratori Sotto Tiro”, per il quale ACLED ha contribuito con un capitolo sulla violenza contro i funzionari locali in Europa. Andrea ha presentato i risultati del capitolo e ha partecipato a una tavola rotonda con rappresentanti di Avviso Pubblico; l’ex magistrato e Presidente del Senato italiano, Pietro Grasso; la presidente della Commissione parlamentare Antimafia, Chiara Colosimo; e il sottosegretario al Ministero dell’Interno, Wanda Ferro.

Categorie
Costruttori di ponti

Il vertice dei BRICS e le reazioni intemperanti degli Stati Uniti

Trump può tirare calci e urlare quanto vuole. Non paralizzerà i BRICS.

Di PAULO NOGUEIRA BATISTA JR.

Pubblicato il 07/10/2025 alle 18:33

Modificato il 07/10/2025 alle 19:15

Bandiere dei paesi BRICS Marcelo Camargo/Agência Brasil

TRADUZIONE IN ITALIANO DELL’ARTICOLO PUBBLICATO IN PORTOGHESE SU “JORNAL DO BRASIL” https://www.jb.com.br/brasil/opiniao/artigos/2025/07/1056147-a-cupula-dos-brics-e-as-reacoes-destemperadas-dos-eua-eua.html

.

Il vertice dei BRICS è stato un successo, contrariamente a quanto molti (me compreso) temevano. Preoccupato per quello che percepivo come un rischio di fallimento, ho inviato suggerimenti ed espresso le mie preoccupazioni più volte, sia pubblicamente che nei colloqui con i funzionari governativi. Sono stato soddisfatto dei risultati e mi congratulo con i team del governo brasiliano e con quelli di altri paesi che hanno contribuito al suo successo, in particolare la Russia.

Non è un caso che Donald Trump abbia ricominciato a esagerare durante e dopo il vertice dei BRICS, confermando che il gruppo è, di fatto, il principale contraltare globale all’egemonia degli Stati Uniti e dei suoi alleati. In effetti, i risultati del vertice di Rio de Janeiro hanno rappresentato un sorprendente miglioramento.

In ambito economico e finanziario, alcune importanti iniziative sono state confermate e sviluppate, e altre sono state avviate. E questo lavoro proseguirà – spero – nella seconda metà della presidenza brasiliana. Va sottolineato che questi risultati positivi sono stati conseguiti nonostante le notevoli sfide che hanno interessato il funzionamento dei BRICS. Questo articolo affronterà queste questioni, da un lato, e le istituzioni e le iniziative finanziarie del gruppo, dall’altro.

Per essere breve, tralascerò le questioni diplomatiche e politiche. Mi concentrerò esclusivamente sulle reazioni politiche ed economiche di Trump.

E l’agenda economica dei BRICS è così vasta che non sarò nemmeno in grado di affrontare tutte le iniziative del gruppo in questo campo.

Lula e Trump.
Inizierò con gli sfoghi di Donald Trump. La dichiarazione del presidente Lula, poco prima del vertice, secondo cui i BRICS devono creare una valuta alternativa per le transazioni internazionali è stata interessante. È un’affermazione coraggiosa, poiché ignora, e giustamente, le ripetute minacce di Trump contro i BRICS e qualsiasi paese che agisca per detronizzare il dollaro come valuta di riserva internazionale.

Durante il nostro vertice, Trump ha minacciato di nuovo: “Qualsiasi paese che si allinei alle politiche antiamericane dei BRICS dovrà pagare un’ULTERIORE tariffa del 10%”, scrivendo tutto in stampatello, e aggiungendo che “non ci saranno eccezioni a questa politica”.

Poco dopo il vertice, Trump ha rilasciato dichiarazioni ancora più aggressive, affermando che i paesi BRICS intendono “distruggere il dollaro” e che il gruppo “è stato creato per svalutare la nostra moneta”. Ha ribadito con enfasi: “Il dollaro è sovrano. Lo manterremo tale. Se qualcuno vuole contestarlo, può farlo. Ma dovrà pagare un prezzo elevato”. Ha inoltre stabilito che i nuovi dazi entreranno in vigore il 1° agosto.

Il giorno dopo, ha sferrato un colpo ancora più duro: ha inviato una lettera aperta a Lula annunciando un ulteriore dazio del 50% sulle importazioni di prodotti brasiliani a partire dal 1° agosto. Tuttavia, ha giustificato questo aumento tariffario principalmente con questioni di politica interna, in particolare una presunta caccia alle streghe contro l’ex presidente Bolsonaro, che “deve finire IMMEDIATAMENTE” (di nuovo in maiuscolo). Si è anche lamentato delle “centinaia di ordini di censura della Corte Suprema Federale brasiliana, SEGRETI e ILLEGALI (di nuovo in maiuscolo), diretti alle piattaforme di social media statunitensi”. Si è anche lamentato delle barriere tariffarie e non tariffarie del Brasile. È interessante notare che gli Stati Uniti hanno registrato significativi surplus commerciali con il Brasile per molti anni, il che conferisce alla lettera di Trump un tono del tutto assurdo.

Allo stesso tempo, Trump ha nuovamente sparato la sua mitragliatrice tariffaria contro diversi paesi sviluppati e in via di sviluppo, alcuni dei quali appartengono ai BRICS.

La risposta del presidente Lula a Trump è stata impeccabile. La differenza di qualità tra la lettera di Trump e la risposta di Lula è impressionante. La prima è completamente sconsiderata (un altro sintomo del declino americano); la seconda è ferma e ben fondata.

Lula ha accennato a ritorsioni, affermando che il Brasile si riserva il diritto di rispondere ai sensi della legge brasiliana sulla reciprocità economica se l’aumento dei dazi dovesse effettivamente entrare in vigore. Una posizione coraggiosa da parte del nostro presidente, dato che la lettera aperta di Trump aveva già minacciato ulteriori aumenti tariffari se il Brasile avesse aumentato i suoi dazi sulle esportazioni statunitensi. E Trump ha persino avuto il coraggio di scrivere che se Lula “eliminasse i dazi e le barriere non tariffarie”, “potrebbe prendere in considerazione” la possibilità di modificare la sua lettera.

Cosa possiamo dedurre da tutto questo? Beh, Trump ha già parlato di dazi del 100% e persino del 200% sui paesi BRICS a causa della presunta minaccia al dollaro. Un passo avanti, quindi!

In breve, si è trattato di ulteriori commenti sgarbati da parte del presidente degli Stati Uniti. Sebbene non abbia menzionato i BRICS nella sua lettera a Lula, è ragionevole supporre che il successo del vertice di Rio abbia contribuito allo sfogo di Trump.

I BRICS e il sistema monetario e finanziario controllato dall’Occidente.
Contrariamente a quanto affermato da Trump negli ultimi giorni, riecheggiando diverse precedenti dichiarazioni dello stesso genere, i BRICS non intendono deliberatamente detronizzare o indebolire, né tantomeno “distruggere”, il dollaro, ma piuttosto creare alternative ai sistemi internazionali dominati dall’Occidente e incentrati sulla valuta statunitense. “Prendiamocela comoda. Non siamo contro il dollaro; è solo che a volte il dollaro è contro di noi”, ha detto il Presidente Putin, senza ironia, in risposta a una domanda che ho avuto l’opportunità di porgli durante l’incontro annuale del Valdai Club nel novembre dello scorso anno. Vedete, lettore, persino la Russia, che è di fatto in guerra con l’Occidente, ha finora adottato un linguaggio moderato riguardo alle proposte di de-dollarizzazione.

Ma la verità è che l’attuale sistema monetario e finanziario internazionale, controllato dall’Occidente – ovvero il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e le tradizionali banche regionali di sviluppo; la centralità del dollaro come valuta internazionale; il sistema di pagamenti transfrontalieri SWIFT; le tre principali agenzie di rating, tra gli altri elementi – presenta chiaramente diverse gravi carenze. È esclusivo, inefficiente e non riesce a soddisfare le esigenze dei paesi BRICS e del resto del Sud del mondo. È, essenzialmente, uno strumento di potere e coercizione per i paesi del Nord Atlantico e i loro alleati altrove. Pertanto, dobbiamo creare meccanismi alternativi indipendenti dall’Occidente, pur continuando a partecipare, nella misura del possibile e della convenienza, al sistema attuale.

Credo che i BRICS, o una parte del gruppo, continueranno a sviluppare, con pazienza e professionalità, un nuovo sistema: non anti-occidentale, ma post-occidentale, per usare un’espressione usata da Zhao Long, un economista cinese, in un dibattito a cui ho assistito a Rio de Janeiro la scorsa settimana.

Questo accadrà nei prossimi anni, che a Trump piaccia o no. Ed è un peccato che il presidente degli Stati Uniti non sappia come controllare i suoi scatti d’ira.

Il peso del gruppo BRICS:
Trump ha motivo di temere i BRICS? Probabilmente sì. Il nostro gruppo comprende tutti i paesi più grandi del Sud del mondo. Ora abbiamo 10 membri effettivi (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, Indonesia, Iran, Egitto, Etiopia ed Emirati Arabi Uniti), più altri 10 paesi partner. I BRICS hanno un enorme peso economico, demografico e territoriale. Considerando solo i membri effettivi, i BRICS o BRICS+ rappresentano non meno del 50% della popolazione mondiale (grazie principalmente a India e Cina), quasi il 40% del PIL globale (grazie principalmente alla Cina) e il 30% del territorio globale (grazie principalmente a Russia, Cina e Brasile). Non c’è da stupirsi che il nostro gruppo attiri così tanta attenzione in tutto il mondo.

(Nota a piè di pagina: l’Arabia Saudita è stata invitata a diventare membro a pieno titolo nel 2023, ma non ha ancora risposto, né positivamente né negativamente. L’Argentina, invitata nello stesso momento, ha rifiutato. Il che dimostra, tra l’altro, che per ragioni politiche non tutti i paesi del Sud del mondo sono pronti ad aderire ai BRICS.)

Un altro confronto rilevante per i BRICS: considerando i primi 10 paesi al mondo in termini di popolazione, PIL (misurato in base alla parità del potere d’acquisto) e territorio, emerge quanto segue. Cinque dei BRICS (India, Cina, Indonesia, Brasile e Russia) sono tra i 10 paesi più grandi per popolazione. Gli stessi cinque BRICS sono tra i 10 paesi più grandi in termini di dimensioni economiche. E quattro di loro sono tra i 10 paesi più grandi per area geografica (tutti quelli sopra menzionati tranne l’Indonesia).

Il Brasile è presente in tutte e tre queste liste, va notato, ed è per questo che ho intitolato il mio penultimo libro “Il Brasile non sta nel giardino di nessuno”. Il problema, tuttavia, è che molti brasiliani stanno nel giardino di chiunque, incluso, e in particolare, Jair Bolsonaro, che Trump, comprensibilmente, difende con tanta forza. Gli americani amano i vassalli. Ma non voglio divagare, quindi tornerò sui BRICS.

Non dovremmo esagerare la reale importanza dei BRICS come gruppo.
È importante riconoscere, tuttavia, che percentuali e liste come quelle sopra menzionate possono dare un’idea esagerata del reale peso pratico dei BRICS come gruppo. Esistono alcune difficoltà che impediscono ancora ai BRICS di svolgere un ruolo commisurato al loro peso relativo nel mondo, e questo ha, come previsto, ostacolato la presidenza brasiliana del gruppo nel 2025. Senza voler esaurire l’argomento o anche solo elencare tutte queste difficoltà, ne discuterò brevemente tre: una di natura ciclica – il rischio di una presidenza brasiliana abbreviata; e altre due, più strutturali e interconnesse, che si prevede persisteranno per il resto del 2025 e oltre – i rischi di un’eccessiva espansione dei BRICS e i rischi di paralisi all’interno del gruppo dovuti alla nostra radicata tradizione di decidere per consenso.

Rischio di accorciare la presidenza brasiliana
Il governo brasiliano ha commesso l’errore di programmare il vertice a metà anno, cosa molto insolita e che rischia di ridurre la presidenza brasiliana dei BRICS a soli sei mesi. L’argomentazione, molto debole, è che il Brasile ospita la COP30 a novembre e che il paese non sarebbe in grado di organizzare due eventi internazionali in date simili. Questo è fuori discussione. Il Brasile, essendo uno dei paesi leader al mondo, può effettivamente farlo, se non pensa in piccolo. E poi, diciamocelo, è improbabile che la COP30 raggiunga risultati pratici significativi e sarà probabilmente solo un’altra occasione per discorsi e slogan di solidarietà. I ​​BRICS, d’altra parte, costituiscono il gruppo di paesi meglio posizionati per cambiare il panorama internazionale.

Questo problema è stato mitigato a Rio de Janeiro dal fatto che la Dichiarazione dei Leader e altri documenti prevedevano diverse riunioni ministeriali, delle banche centrali, degli Sherpa e dei consiglieri per tutta la seconda metà dell’anno. Tuttavia, per quanto ne so, mancava un elemento chiave: la programmazione di una riunione dei leader dei BRICS per novembre, in occasione del vertice del G20 a Johannesburg, in Sudafrica, dove i negoziati che si sarebbero svolti nella seconda metà dell’anno sarebbero confluiti. E non ditemi che è impossibile. Non è nemmeno difficile. I leader del gruppo hanno già tenuto diverse riunioni di questo tipo, la prima su iniziativa di Dilma Rousseff nel 2011, e diverse da allora, anche durante l’amministrazione Bolsonaro, con tanto di dichiarazione pubblica. Sono semplici da organizzare, e lo so perfettamente, avendo partecipato a questo processo per diversi anni. Tenevamo riunioni in piccole sale, con circa 25-30 persone presenti, i cinque leader e alcuni consiglieri. Oggi è un po’ più complicato, dato che il numero dei Paesi membri è raddoppiato. Ma si tratta semplicemente di ridurre il numero di persone che ogni leader porta con sé, consentendo un incontro più ristretto e intimo, come avveniva prima dell’espansione del gruppo. È importante notare che questo incontro dei leader non è un secondo summit, con tutti i crismi di un summit, ma un incontro che, sebbene più informale, di solito si conclude con un comunicato che può includere argomenti importanti.

Ad esempio, i negoziati sul Contingent Reserve Arrangement (CRA), il fondo monetario dei BRICS, furono avviati, sotto la guida di Brasile e Cina, più del Brasile che della Cina, in un incontro analogo tenutosi nel 2012 a Los Cabos, a margine del vertice del G20 in Messico. E va sottolineato, tra parentesi, che questi negoziati furono avviati in quel momento solo grazie all’impegno della Presidente Dilma Rousseff, che non si diede pace finché non fu superata la resistenza dell’India. (Un resoconto di questi difficili e persino tumultuosi negoziati a Los Cabos si trova in *O Brasil não cabe no quintal de ninguém*, seconda edizione, pagine 256-261.)

Va notato che dei 10 attuali membri dei BRICS, quattro paesi – Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran – non fanno parte del G20. Ma questo non è un problema. Il Sudafrica dovrebbe semplicemente invitare questi quattro paesi a Johannesburg, non per partecipare al vertice del G20, ma per incontrare gli altri leader dei BRICS – un incontro che potrebbe, in effetti, essere più importante del G20, un gruppo praticamente paralizzato dal peggioramento della situazione geopolitica globale e dal confronto tra Stati Uniti ed Europa, da un lato, e Cina e Russia, dall’altro.

Rischi derivanti dall’espansione dei BRICS e dal processo decisionale del gruppo:
non sono stati annunciati nuovi inviti a nuovi paesi ad aderire, né come membri effettivi né come partner. Ottima osservazione! Il gruppo è già cresciuto troppo; l’espansione sotto la pressione della Cina è stata affrettata e mal pianificata. I criteri per la selezione dei nuovi paesi non erano ben definiti. Ad esempio, non è stato possibile garantire l’impegno dei nuovi membri nei confronti dei principi già consolidati del gruppo, il che sembra già compromettere i negoziati interni dei BRICS.

È ora di fermare qualsiasi ulteriore espansione. Il motivo è che un gruppo più ampio ed eterogeneo tende ad avere difficoltà a prendere decisioni pratiche, soprattutto se aderiscono paesi altamente vulnerabili alle pressioni economiche e politiche del blocco occidentale.

Tanto più che i BRICS – un punto fondamentale e poco noto – sono profondamente legati alla tradizione del consenso, rigidamente inteso come unanimità. Pertanto, ogni singolo paese ha potere di veto, il che ostacola il progresso su questioni controverse. Ovviamente, più ampio è il gruppo, più difficile diventa raggiungere il consenso. Era già difficile quando avevamo solo cinque paesi. Posso testimoniare come abbiamo faticato a raggiungere il consenso anche con soli cinque paesi. Con 10, le difficoltà aumentano. Se il numero di membri effettivi aumenta a 15 o 20, il gruppo rischia di diventare inoperativo, una sorta di laboratorio di chiacchiere, un forum per discorsi e proclami, non per decisioni pratiche.

Quando prevale la necessità del consenso, ripeto, ogni Paese membro ha potere di veto, soprattutto il più grande, ma anche il più piccolo. È la ricetta per la paralisi. L’India, ad esempio, utilizza questo processo decisionale complesso per bloccare proposte in vari ambiti, in particolare iniziative monetarie e finanziarie, che potrebbero danneggiare gli interessi degli Stati Uniti, un Paese con cui cerca di mantenere stretti legami come contrappeso alla Cina, suo tradizionale avversario. Questo comportamento dell’India è evidente da tempo, ma si è intensificato sotto l’amministrazione Modi e, credo, ancor di più con il ritorno di Trump alla presidenza e le sue ripetute minacce.

La soluzione è consentire che determinate iniziative siano realizzate da un sottogruppo dei BRICS su base volontaria, lasciando la porta aperta a coloro che non desiderano partecipare fin dall’inizio. Il vertice di Rio ha ribadito questa possibilità, in seguito al vertice di Kazan in Russia nell’ottobre 2024. Ora è il momento di metterla in pratica.

Nonostante le difficoltà, a Rio sono stati compiuti progressi considerevoli
. Nonostante tutte queste difficoltà, la presidenza brasiliana ha ottenuto risultati finanziari significativi. Ne illustrerò brevemente alcuni, senza un ordine particolare di importanza o priorità.

Primo risultato: la Dichiarazione dei leader è stata impeccabile nell’orientamento dato alle due principali iniziative finanziarie dei BRICS: la New Development Bank (NDB), meglio nota come BRICS Bank, e il Contingent Reserve Arrangement (CRA).

La Banca Nazionale per lo Sviluppo (NDB), che ho contribuito a fondare, è di gran lunga la più importante delle due. Ricordo che è stata creata per essere una banca del Sud del mondo per il Sud del mondo, in alternativa alla Banca Mondiale e alle banche regionali di sviluppo. Non ci siamo ancora arrivati. La Dichiarazione dei leader ha giustamente sottolineato (“sosteniamo fermamente”) l’ulteriore espansione dei paesi membri della NDB, essenziale affinché diventi davvero una banca globale, come avevamo pianificato fin dall’inizio. Dopo 10 anni di esistenza, la NDB conta solo 11 paesi membri. L’ex presidente Dilma Rousseff, che attualmente presiede la banca, è impegnata su questo fronte e ha già ottenuto un certo successo, accogliendo l’Algeria, oltre a Colombia e Uzbekistan, nuovi membri annunciati al vertice di Rio.

Inoltre, la Dichiarazione ha giustamente raccomandato alla Banca Nazionale di Nuova Delhi di effettuare più operazioni nelle valute nazionali dei paesi membri. Anche in questo caso, la banca ha fatto pochi progressi nei suoi primi 10 anni e rimane prevalentemente dollarizzata sia per le sue attività che per le sue passività. Dilma Rousseff sta lavorando per aumentare la quota delle valute dei paesi membri nelle sue operazioni al 30%.

Restano da migliorare a) la trasparenza e la comunicazione della NDB, inferiori a quelle della Banca Mondiale e del FMI; b) la copertura di importanti posizioni vacanti (ad esempio, quella del capo economista della banca); e c) la garanzia che la NDB rispetti sempre rigorosamente le sue regole di governance, cosa che purtroppo non è avvenuta. Soprattutto, è probabile che la qualità e l’efficacia dei prestiti della NDB debbano essere migliorate, sebbene non sia chiaro come si stia evolvendo questo aspetto cruciale, poiché, come ho detto, la banca non gode di sufficiente trasparenza. La segretezza che circonda questa questione solleva il sospetto che non tutto stia andando per il verso giusto.

L’ACR – i cui negoziati furono condotti dal mio presidente al FMI, sotto la guida del Ministro Guido Mantega – ha progredito molto meno del previsto e meno della NDB nei suoi primi 10 anni, essendo stata quasi completamente congelata dal conservatorismo delle nostre banche centrali. È stata concepita da noi, ricordiamolo, per fungere da alternativa al FMI, un obiettivo ancora molto lontano.

La dichiarazione dei leader dei BRICS coglie nel segno quando sottolinea l’auspicabilità della de-dollarizzazione di un accordo che dipende al 100% dal dollaro. Coglie nel segno anche quando chiede l’inclusione dei nuovi membri dei BRICS come membri dell’RTA.

Non mi sorprenderebbe, tuttavia, se le banche centrali dei cinque paesi fondatori dell’RTA (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), o alcune di esse, tergiversassero su queste due questioni. Spetta alle autorità politiche, in particolare ai presidenti dei paesi e ai rispettivi ministeri delle finanze, garantire che gli obiettivi dei leader del gruppo siano raggiunti senza inutili ritardi.

La Dichiarazione dei Leader ha omesso di menzionare altri punti essenziali per il funzionamento dell’ACR. Ad esempio, la necessità di aumentare il valore totale dell’accordo, che è troppo esiguo per consentirgli di funzionare come alternativa al FMI. E la necessità di disimpegnarlo gradualmente dal Fondo, poiché solo il 30% della quota di ciascun paese può essere utilizzato senza un accordo fortemente condizionato con il FMI. Questo ovviamente vanifica lo scopo . Per dare al lettore un’idea della ridicolaggine di certe posizioni, la Banca Centrale del Brasile, nei negoziati che hanno portato alla creazione dell’ACR, ha addirittura sostenuto legami al 100% con il FMI, suscitando ampio sconcerto.

Per consentire alla quota libera, slegata dal FMI, di aumentare gradualmente oltre l’attuale 30%, per arrivare in futuro al 100%, cioè allo sganciamento totale, è fondamentale istituire un’Unità di monitoraggio macroeconomico, come previsto dal Trattato istitutivo dell’ACR, firmato nel 2014. A più di 10 anni di distanza, poco o nulla è stato fatto per creare questa unità.

I cinesi spesso ne propugnano la sede a Shanghai, nell’edificio della NDB. Non è una cattiva idea, poiché faciliterebbe la sinergia tra le due istituzioni. Tuttavia, non è l’opzione migliore, poiché trasformerebbe Shanghai nella nuova Washington, sede della banca e del fondo monetario dei BRICS.

Un’idea migliore, dal punto di vista del Brasile e degli altri membri dei BRICS, sarebbe quella di ospitare la nuova unità BRICS a Rio de Janeiro. Il sindaco Eduardo Paes si è dichiarato disponibile a ospitare un potenziale segretariato dei BRICS. Un modo per iniziare sarebbe trovare uno spazio in cui istituire questa nuova unità. (Non è necessario che sia di grandi dimensioni, poiché il numero richiesto di economisti e altro personale non sarebbe elevato.)

Mi rendo conto, caro lettore, che questo articolo sta diventando un po’ lungo. Ero entusiasta del successo della presidenza brasiliana nella prima metà del 2025. Quindi mi affretto a concludere.

I BRICS non si sono limitati ad affrontare i meccanismi finanziari esistenti, la Banca Nazionale di Sviluppo (NDB) e l’ACR. Hanno lanciato o rafforzato diverse iniziative finanziarie nuove o recenti. Non posso non menzionarle. Sottolineo le seguenti: a) il crescente utilizzo delle valute nazionali nelle transazioni tra paesi (aggirando il dollaro); b) la costruzione di una piattaforma di pagamento internazionale alternativa a SWIFT (controllata e manipolata dall’Occidente); c) la creazione di un sistema di garanzia multilaterale all’interno della Banca Nazionale di Sviluppo (NDB); d) la creazione di una borsa merci alternativa al Chicago Board of Trade; ed e) meccanismi per migliorare la capacità dei nostri paesi di offrire servizi assicurativi e riassicuratori. In tutti questi ambiti, gli Stati Uniti e altri paesi occidentali manipolano, distorcono e fanno un uso politico, nel senso peggiore del termine, degli strumenti esistenti. Tutto ciò è stato spiegato, in termini generali, nella Dichiarazione dei leader e in altri documenti del vertice di Rio.

Infine, vorrei menzionare un tema che mi sta a cuore: la riforma del FMI, un’istituzione in cui ho ricoperto per otto anni il ruolo di Direttore Esecutivo per il Brasile e altri 10 Paesi. Il documento presentato al vertice, “BRICS Rio de Janeiro Vision for IMF Quota and Governance Reform”, è eccellente. Oltre a ribadire le nostre posizioni tradizionali su quote e voti (attualmente sostanzialmente irraggiungibili), il documento specifica, e soprattutto nella pratica, alcuni obiettivi più raggiungibili perché migliorano il FMI, ma non affrontano i cambiamenti di governance bloccati da Stati Uniti ed Europa. Ad esempio, la creazione di un quinto Vice Direttore nella Governance del Fondo, assegnando questa nuova posizione a cittadini di Paesi del Sud del mondo. Un altro esempio: la difesa dell’aumento del voto di base, che favorisce i paesi piccoli, tra cui diversi del nostro gruppo al FMI, e che entro certi limiti è perfettamente possibile (ovvero, sempre che non minacci il potere di voto di almeno il 15%, che dà agli Stati Uniti la possibilità di esercitare il veto su alcune decisioni fondamentali, quelle che richiedono una supermaggioranza dell’85%).

E la nuova valuta di riserva?
Un punto centrale mancava nella Dichiarazione dei Leader: la creazione di una nuova valuta di riserva, sostenuta dal Presidente Lula. Questo è il passo più importante, ma incontra una forte resistenza da parte dell’India.

Inoltre, anche le nostre banche centrali interferiscono, arrivando persino a concedersi il diritto di intromettersi in questioni geopolitiche! La Banca Centrale del Brasile è spesso una delle peggiori. Molto indipendente (dal governo eletto, ma non dal mercato finanziario), la nostra Banca Centrale si comporta spesso, nei negoziati di gruppo, come se fosse un Paese a sé stante, un undicesimo BRICS. Questo è successo ai miei tempi e continua ad accadere oggi.

Pertanto è necessario inquadrare la Banca Centrale.

Infine, vorrei sottolineare che la dichiarazione del Presidente Lula su questo argomento è stata molto accurata. Ciò che ha affermato, si noti bene, è che la nuova moneta sarebbe stata utile per le transazioni internazionali.

Diversi economisti russi, cinesi e brasiliani stanno lavorando a soluzioni alternative per la creazione di una nuova valuta. Io stesso ho delineato un percorso, che potrebbe non essere il migliore. Non mi dilungherò sull’argomento. Volevo solo sottolineare un punto: una nuova valuta per i BRICS, o per un sottoinsieme di paesi BRICS, non sarebbe una valuta unica con una banca centrale comune, come esiste in Europa. Nessuno degli economisti che partecipano a questa discussione ha questo in mente. È per ignoranza o malafede di coloro che vogliono ostacolare il processo che questo fantoccio continua a spuntare. Una nuova valuta, se mai venisse creata, sarebbe una valuta digitale parallela per le transazioni internazionali e per scopi di riserva.

Essa svolgerebbe tutte le funzioni classiche di una moneta – mezzo di pagamento, unità di conto e strumento di riserva – senza però sostituire le valute nazionali dei paesi partecipanti e senza creare una banca centrale comune.

Discutiamo di queste alternative senza timore e con professionalità! Il resto del Sud del mondo si aspetta progressi dai BRICS in questo ambito cruciale. Il sistema monetario e finanziario internazionale, dominato dagli Stati Uniti e dai suoi alleati (o vassalli), non verrà riformato radicalmente e rischia persino il collasso.
Trump può inveire e scatenare il caos quanto vuole, ma non sfuggirà all’accelerare, attraverso l’incompetenza e la mancanza di controllo, il declino dell’Impero americano. Come nelle tragedie greche, il tentativo dei protagonisti di sfuggire al proprio destino non fa che assicurarne il compimento.

***

Una piccola parte di questo articolo è stata pubblicata su Folha de S.Paulo.

L’autore è un economista e scrittore. È stato vicepresidente della New Development Bank, fondata dai BRICS a Shanghai, dal 2015 al 2017, e direttore esecutivo del FMI, in rappresentanza del Brasile e di altri 10 paesi a Washington, D.C., dal 2007 al 2015. Ha pubblicato il libro “O Brasil não cabe no quintal de ninguém” (Il Brasile non sta nel giardino di nessuno), seconda edizione nel 2021, con la casa editrice LeYa Brasil, e il libro “Estilhaços” (Frammenti) nel 2024 con la casa editrice Contracorrente.

E-mail: paulonbjr@hotmail.com
Canale YouTube: youtube.nogueirabatista.com.br
Portale: www.nogueirabatista.com.br

Categorie
Costruttori di ponti

Io sono la porta, ma anche Colui che bussa alla porta…

di Alessandro Manfridi

Domani, alle 18.30, verrà aperta la Porta Santa di San Pietro a Roma. Attraversarla con un po’ di storia e di esegesi sulle spalle ci aiuterà a farlo con maggiore consapevolezza.

23 Dicembre 2024

1

Comunità

DioGesùgiubileoincontroMosèPorta Santarito di passaggio

Quella di Mosè è la storia di un uomo comune. Un uomo che avrebbe voluto cambiare qualcosa con le sue forze per giovare alla sua gente ma che ha dovuto fuggire in un paese lontano perché ha fallito nel suo intento e ha dovuto pensare alla sua vita.

Lì ha iniziato tutto da capo, ha messo su una famiglia, si è sposato, ha avuto due figli e ha iniziato a condurre una onesta e quotidiana vita di lavoro, lontano dai fasti e i riflettori della corte del Faraone.

Proprio lui, preso dal suo lavoro quotidiano e ormai lontano dai suoi propositi giovanili, ha vissuto uno degli incontri più intensi che la Bibbia ci racconti.

Quel Dio che si è rivelato a lui in maniera potente, come un fuoco che consuma, che divora, che trasforma in sé tutto ciò che avvolge, e davanti al quale non ci si può avvicinare per curiosità ma bisogna levarsi i calzari, lo ha scelto per liberare il suo popolo dall’Egitto.

E alla richiesta di rivelare il proprio nome, il Dio dei suoi padri si rivelerà con il tetagramma del verbo “Essere” che è la massima rivelazione e al tempo stesso il massimo nascondimento. Dio non “si definisce” con un qualche attributo o una qualche funzione. Lui “è” e non può essere racchiuso in una definizione. Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono!”. E aggiunse: “Così dirai agli Israeliti “Io Sono mi ha mandato a voi”(Es 3,14).

Nel quarto Vangelo Gesù riprende la rivelazione del nome che Mosè ha ricevuto al roveto ardente e lo utilizza sia in senso assoluto: “Io sono” (Gv 8,24.28.58; 13,19) che definendosi nei suoi discorsi teologici. “Io sono il pane della vita” (Gv 6,35); “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12); “Io sono la resurrezione e la vita” (Gv 11,35); “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6); “Io sono la vite vera (Gv 15,1).

Nel capitolo 10 c’è il discorso sul pastore delle pecore: “Io sono il buon pastore” (Gv 10,11). È in questo contesto che Gesù si definisce come “la porta delle pecore” (Gv 10,7). “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Gv 10,9).

Quello della porta è un simbolo potente che attraversa epoche, culture e religioni con il suo significato di passaggio, di iniziazione, di ingresso. La porta evoca, insieme a tanti significati mistici, esoterici e spirituali, in particolare il passaggio e l’ingresso verso “altri mondi” e a quello che accomuna l’esperienza di tutte le generazioni, con il passaggio dalla vita all’aldilà.

Dal 1300, con l’istituzione del Giubileo nella Chiesa Universale con papa Bonifacio VIII il messaggio di liberazione trasmesso dal capitolo 25 del libro del Levitico con l’anno giubilare, fatto proprio da Gesù nella sinagoga di Nazareth (Lc 4, 16-30) entra potentemente nella cristianità.

La prima “Porta santa” della storia del cristianesimo è quella della Basilica di Santa Maria di Collemaggio a L’Aquila fondata nel 1288 da papa Celestino V. La prima “Porta santa” legata ad un giubileo è quella della Basilica di San Giovanni in Laterano a Roma nel 1423. Con papa Alessandro VI si hanno notizie certe dell’inizio del rito di apertura della “Porta santa” nel Giubileo del 1500 nella Basilica di San Pietro.

Nel 1950 viene inaugurata l’attuale “Porta santa” collocata alla destra della facciata della Basilica di San Pietro in Vaticano, realizzata dallo scultore Vico Consorti per la Fonderia Marinelli di Firenze e aperta da Papa Pio XII, ancora oggi raffigurato nell’ultima formella della stessa porta, in un Giubileo che voleva caratterizzarsi come un evento di riconciliazione e di pace, dopo il dramma del secondo conflitto mondiale.

Il rito di apertura della “Porta Santa” la notte del 24 dicembre, a San Pietro, da parte del Papa, inaugura l’apertura nell’anno del Giubileo.

Durante questo anno l’esperienza da parte dei pellegrini di varcare la “Porta Santa” (una tra quelle delle quattro Basiliche Maggiori di Roma) (NB: da queste porte si può solo entrare, non uscire) realizza in maniera plastica quello che è un messaggio evangelico potente.

“Io sono la porta”: ci dice il Signore (Gv 10,9). La “Porta Santa”, dunque, è uno dei simboli che rappresentano il Cristo. Varcare la sua soglia simboleggia l’”entrare” attraverso di Lui.

La Parola però ci suggerisce ulteriori indicazioni e la riflessione sulle formelle della “Porta Santa” della Basilica di San Pietro ci aiuta, ad esempio, ad approfondirle.

“Sto ad ostium et pulso”: con questa parola, impressa nella sua sedicesima formella, viene richiamata la rivelazione che san Giovanni evangelista riceve a Patmos dal Signore: “Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me “(Ap 3,20).

C’è una raffigurazione pittorica che mostra in maniera suggestiva questo versetto, con il Signore che bussa ad una porta, priva di maniglie: è una porta che può essere aperta solo dall’interno.

Il passaggio della “Porta Santa” significa il nostro impegno a “entrare” attraverso il Signore.

Ma è Lui stesso che, per primo, fa un passo verso di ciascuno di noi, bussando alla porta del nostro cuore, della nostra anima, della nostra vita. Solo noi possiamo decidere se lasciarlo fuori o farlo entrare.

Che questo Giubileo possa essere l’occasione per riscoprire la potenza e la bellezza di questo incontro.

Categorie
Costruttori di ponti

Identità di genere: approccio psicologico e pedagogico

Questioni di genere

di Alessandro Manfridi

Picardi, Ceriotti Migliarese e Fusi continuano la riflessione sull’Identità di genere al Corso Interdisciplinare offerto dalla Pontificia Facoltà Auxilium per l’aa. 2024/25

13 Dicembre 2024

“Identità di genere. Sfide e prospettive per educatori”: è il tema del corso interdisciplinare con il quale la Pontificia Facoltà “Auxilium” ha inaugurato l’anno accademico 2024-2025. https://www.pfse-auxilium.org/it/notizie/08-10-2024/corso-interdisciplinare-24-25-identita-di-genere/roma

La seconda giornata si è svolta sul tema “Identità di genere: approccio psicologico e pedagogico” https://www.youtube.com/live/SO7CyjtU4LQ?si=-TWpeqUfyWBz_gOg

Modera entrambi gli incontri Maria Grazia Vergari, della Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium. All’inizio di entrambi gli incontri saluta i presenti e ringrazia i relatori Piera Ruffinato, Preside della Facoltà.

Entrambi gli incontri sono stati aperti da due video introduttivi realizzati da Annalisa Picardi.

Nel primo si è presentato il Teen drama che è un genere narrativo, presente nelle serie tv, indirizzato agli adolescenti e ai giovani; si tratta di strategie comunicative usate per formare le nuove generazioni. Il linguaggio liquido gender è entrato nelle strategie di marketing delle piattaforme di streaming che utilizzano questi elementi per attirare a sé nuovi abbonati. Alla fine di tutta questa narrazione il corpo queer è diventato un prodotto da vendere.

Per i media non è tanto importante ciò che si vuole mostrare ma ciò che si vuole nascondere: il fatto che noi non siamo omologabili ma siamo unici e irripetibili.

Il secondo video, la cui narrazione è ispirata ai passaggi della Lettera Enciclica Dilexit nos di papa Francesco, ci ricorda che il passato non può ritornare. È utopistico pensare di ritornare nella società degli anni 90; dobbiamo entrare nell’ottica che questo tempo possa essere vissuto come opportunità.

La fluidità è una risposta confusa ma che ha inquadrato la domanda giusta presente nel profondo di noi stessi, una domanda antica.

Il primo intervento è stato presentato da Mariolina Ceriotti Migliarese, medico, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta (Milano), sul tema: “Identità di genere: prospettive psicologiche”.

L’argomento viene svolto da un punto di vista evolutivo, tracciando le linee evolutive che partono dall’infanzia.

Noi nasciamo biologicamente determinati dal maschile e femminile e arrivare a definire la propria identità e la propria identità di genere richiede due decenni di passaggi con un lungo percorso di identificazione inserito in un intreccio di relazioni, dove natura e cultura si sovrappongono.

La prima cosa per il bambino vive è la scoperta della differenza di un’identità sessuale. Questa scoperta si pone tra i 18 e i 24 mesi. Il bambino raggiunge una stazione retta, acquisisce un linguaggio che gli permette di dare un nome alle cose, dopo i primi mesi riceve l’educazione dagli adulti al controllo volontario degli sfinteri. Queste tre cose comportano una attenzione all’area genitale. Il bambino, anche molto piccolo, ha situazioni di erezione del pene che comporta un aumento dell’interesse e dell’attenzione.

È necessario per prima cosa conoscere come funziona il pensiero infantile. Il bambino non è un adulto semplificato. Il pensiero del bambino è un pensiero sperimentale, concreto, non accede all’astratto.

Per il bambino l’area genitale e quella escrettiva sono collegate. Il pensiero del bambino funziona per categorie semplici: “o…o”; è un pensiero che funziona per opposti e che gli permette di orientarsi. Il bambino divide il mondo in due: esiste il maschio e la femmina.

La seconda cosa che si chiede: perché esiste questa diversità? La risposta che il bambino si dà è quella reale, che corrisponde alla natura: questa diversità esiste per generare.

Il bambino si percepisce come portatore di qualcosa, la bambina si percepisce come mancante di qualcosa.

Il bambino ha la necessità di disambiguare di categorizzare: “Io sono maschio come il papà, io sono femmina come la mamma”.

I passaggi successivi: “è bello somigliare al papà” o viceversa, dipendono in parte da come l’adulto accoglie o rifiuta l’identità del bambino; ma dipendono anche da come gli adulti si confrontano tra di loro.

Se il padre non tratta bene la madre, il bambino realizzerà che non è bello essere una donna! Quando i minori assistono a delle violenze in campo familiare possono nascere delle ferite importanti.

È molto significativa l’intervista al registra Crialese che ha fatto un coming out sulla sua esperienza di transizione, raccontando la sua infanzia https://video.corriere.it/festival-venezia-crialese-racconto-mia-infanzia-mia-storia/27347c32-2c58-11ed-a881-0468ff338f41

Il percorso maschile e femminile si fa molto diverso.

Il maschio, che ama la madre, deve rinunciare ad essere come la madre per essere come il padre ed essere accolto dal padre o da una figura paterna con la quale si può confrontare per identificarsi; per il maschio una maggiore carica aggressiva è un aiuto al distacco dalla madre.

È molto importante che questo distacco psichico e non fisico del maschio dalla madre avvenga, perché in età adulta il maschio veda la donna non come colei che deve rispondere ai suoi bisogni (come fa la madre).

Più ampio è il problema dell’orientamento sessuale e dell’identità sessuale. Lo snodo principale è quello della preadolescenza. Il corpo diventa un corpo specificamente maschile o femminile durante la pubertà.

Tutta la fase della preadolescenza ha il compito di elaborare il tema della appartenenza personale al mondo maschile o femminile.

Il messaggio che viene recepito: il mio corpo cambia con la pubertà ed io devo assumere una mia identità.

Finché siamo nel mondo dell’infanzia c’è la presenza degli adulti; nella preadolescenza conta più il mondo dei pari e il mondo dei media; con la madre le bambine si confidano se il rapporto è buono, mentre i maschi sono soli perché i padri di solito si tengono fuori da questo confronto.

Quello di internet con il quale si confrontano i preadolescenti è un mondo di promiscuità e di violenza che non insegna la relazione.

L’amico/amica del cuore vengono spesso letti dal mondo adulto e dei pari caricandoli di valenza omosessuale; invece sono omoaffettive e questo stigma porta alla confusione.

Si noti bene, per molti adolescenti il desiderio non è tanto quello di essere di un altro sesso, piuttosto si manifesta come desiderio di rifiutare il proprio sesso. Indirizzare verso la transizione adolescenti che vivono questo malessere può non essere la soluzione, piuttosto un tragico errore. Quello che si rifiuta del femminile sono spesso gli stereotipi della femminilità, non l’essenza.

https://10926efc49c329131f143cb78bdd0f8c.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-40/html/container.html

La prima percezione di sé del maschile e del femminile è diversa, il maschio è contento, la femmina si identifica nella mancanza. Per il bambino c’è la fierezza. La femmina si vive come mancante di qualcosa.

Questa iniziale percezione di mancanza segna la femmina e il negarla impedisce di superarla, lascia la ferita senza darle un nome.

Al menarca non viene più dato il significato simbolico in cui si educa la ragazza a riconoscersi portatrice di un grande potere, quello di generare; l’approccio corrente a questo “evento” è invece quello di medicalizzarlo.

Questo tema è un tema culturale ampio. È un’espressione del disagio del corpo e del disagio della sessualità.

https://10926efc49c329131f143cb78bdd0f8c.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-40/html/container.html

“Approccio pedagogico all’identità di genere: sfide e strategie” è il tema del secondo intervento della sessione, quello di Emanuele Fusi, consulente pedagogico e formatore dell’Università Milano Bicocca e dell’Università cattolica di Milano, insegnante in un liceo di Monza.

Tutta questa questione raccontata come emergenziale che cos’è, come viene vissuta dai giovani che sono da noi narrati? È stata svolta una ricerca tra gli adolescenti i cui dati sono in fase di pubblicazione.

Cosa abbiamo capito?

Prima cosa: di questi ragazzi, circa 500 intervistati, la percentuale del 7% non si riconosce pienamente nel proprio sesso biologico e si descrive come non allineata; il 21% dice che è confuso sulla propria identità di genere.

C’è un disagio generalizzato dei giovani verso il mondo adulto. Non dobbiamo etichettare e patologizzare quella che è una parte decisiva dell’attraversamento dell’adolescenza. Questi ragazzi e ragazze vivono il cambiamento continuo, come in divenire; il che vuol dire che non sono tutti fluidi; in questa fase metamorfica noi dobbiamo pensare il cambiamento.

Il tema in cui ci stiamo approcciando: da un lato posizioni essenzialiste su un modo monolitico; dall’altro posizioni estreme che dicono che io mi produco come mi piace essere.

8 adolescenti su 10 ci dicono che vivere liberamente la propria identità di genere è importante.

Cosa significa: “liberamente”? Significa che non vogliono essere giudicati. Questa preoccupazione configura dunque in termini relazionali il loro porsi. Secondo significato: sono libero “quando posso esplorare”. Terzo: sono libero quando “posso fare ciò che voglio”. Dimensione relazionale, dimensione del movimento esplorativo, dimensione individualistica.

In questo senso gli adolescenti sono lo specchio di come la società degli adulti ha proposto loro un concetto di libertà. Ma gli adolescenti indicano il superamento del modello culturale chiedendo una libertà relazionale.

Dove trovano gli adolescenti le parole per parlare della propria sessualità? Molti di loro ci dicono che non le hanno mai tematizzate. Per parola intendiamo significati, immagini, immaginario.

Il 55% dichiara che ha tratto le informazioni di base dagli influencer. Questo ci dice dove stiano loro, ci dice dove gli abbiamo messi.

Indicatori: primo: la realtà virtuale; un quinto degli adolescenti giudica eccessivo il proprio uso dei social; questo determina in maniera non meccanica, in maniera deterministica, probabilistica: se abito troppo il virtuale è probabile che io stia meno bene. Questi ragazzi ci dicono che il loro modo di stare nei social è un modo passivo, nonostante tutta una letteratura che affermava che essi sostituiscono il mondo virtuale con quello reale. Per loro quello è un luogo di osservazione.

Loro ci dicono che la scuola è il luogo dove trovano informazione (40%) ma dove sperimentano mancanza di fiducia (70%). Altro dato più rilassato: 8 su 10 dicono che si fidano dei genitori.

Domande: qual è il contesto educativo nel quale ci troviamo? Da dove partire per un’azione educativa?

Questo è il punto. È evidente che siamo dentro un attraversamento storico, sociale, culturale, in cui abbiamo accelerato la messa in discussione sul nostro vivere, innanzitutto la questione se il vivere abbia un senso.

Certamente noi adulti, per primi, siamo disorientati. Questa è la realtà. Come la percepiamo? La percepiamo come pericolosa; abbiamo l’idea che la realtà sia così complessa e questo corrisponda ad un rischio. I dati dicono altro. Noi viviamo più a lungo e in migliori condizioni di come si viveva decenni fa.

Qual è la conseguenza di questo nostro “sentire” come adulti? È quella che ci conduce ad un controllo ossessivo dei figli con una iper protezione degli stessi. L’adulto per eccesso di  premura con la sua protezione porta ad un isolamento dei figli, una sorta di “detenzione”.

Secondo: l’adulto si identifica con il figlio: non “sentiamo” i figli ma “ci sentiamo in essi” in maniera non generativa, non siamo più pedagoghi ma scivoliamo verso una direzione opposta, con uno schiacciamento della relazione che si fa congiunzione; va tutto bene quando l’adulto si sente in comfort; l’adulto entra in crisi quando i figli vogliono uscire dal cono di protezione; gli epiloghi delle dinamiche relazionali che sfociano in veri e propri conflitti genitori-figli è quella che conduce i primi a tentare di risolvere le sofferenze dei minori attraverso la sanitizzazione e farmacologizzazione su di loro.

Queste tre mosse insieme: iperprotezione che tende a negare i traumi dei conflitti naturali legati alla crescita (detraumatizzazione della vita), indifferenziazione nel rapporto genitori/figli vissuto in maniera “orizzontale” quasi come un “rapporto tra pari” e patologizzazione che porta alla sanitizzazione e alla farmacologia possono destrutturare i percorsi di crescita degli adolescenti.

È necessario precisare tre elementi: l’educazione non è un meccanismo. Io insegnante come posso nella mia lezione generare più vita, quella degli studenti ma anche la mia mettendo in gioco me stesso? Nell’incontro con l’altro io accolgo la sua domanda e sosto con la sua domanda. Difronte ai percorsi individuativi non ci sono norme ma io devo stare con l’altro. Se sono un buon educatore e un buon genitore avrò fatto mie delle strategie per gestire delle emozioni per gestire l’altro. È importante l’atteggiamento di curiosità. Noi dobbiamo essere interessati all’altro. Se l’altro è quello che vive il disagio non dovrò metterlo in una categoria ma accoglierlo.

Secondo: è importante l’atteggiamento di rispetto che non si limita al primo sguardo ma va in profondità. Terzo: la comprensione porta alla sintonizzazione. Questo fa l’adulto.

L’esperienza è un luogo di comprensione. Tutte le pratiche espressive e comprensive hanno un enorme valore. Dobbiamo ritornare su quello che accade, riflettere, questo chiedono le pratiche. È importante l’accoglimento dell’errore e non il suo rifiuto.

Nella nostra società del tutto e subito dobbiamo capire che, invece, l’educazione richiede tempo.

Il conflitto è un luogo educativo per eccellenza. I giovani oggi sono portati alla guerra e allo scontro non al conflitto. Il meccanismo riproduttivo dei modelli è molto forte e porta alla duplicazione violenta e ad atti brutali. Il caso di Giulia Cecchetin ha sconvolto anche i ragazzi

Ultima cosa: è importante offrire l’incontro con il sacro, degli orientamenti di senso che l’umano ha messo in campo nella sua storia.

Ecco alcuni passaggi del dibattito con i relatori.

La differenza sessuale rappresenta un valore oppure no? Va presa una posizione che non è ideologica ma rappresenta una esperienza ed un pensiero. Le coppie omogenitoriali possono dare cura e affetto ma non rappresentano la diversità e i rispecchiamenti sulla diversità perché testimoniano una non necessità della differenza.

C’è una mancata simbolizzazione di quella che è la aggressività, una grande fatica di esprimere in forma non violenta questa dimensione che appartiene all’umano.

Nella scuola primaria dovrebbe essere un obiettivo educativo aiutare ed educare bambini e bambine alla capacità di autocontrollo, a comprendere gli atti e le loro conseguenze; bisogna riflettere su cosa è la competenza all’autoregolazione; oggi ci sono bambini molto non autoregolati con un alto livello di capricciosità; l’adulto deve facilitare nel bambino la capacità di calmarsi; oggi questa competenza è molto in ribasso; la prima regolazione emozionale nasce dallo sguardo delle mamme mentre allattano e non devono guardare il cellulare; allatto, devo guardare mio figlio, devo parlargli, tenerlo in braccio. Se guardo il cellulare gli sto trasmettendo che sono lontana e non connessa con lui.

Clamorosa la incapacità di stare alla presenza dell’altro non solo in modo non violento ma anche in modo affettivo; questo porta ad un ritiro dei giovani da una riflessione che mi mette in contatto con il mio io, con la mia fragilità, con le mie attese.

Come far diventare la scuola un luogo dove ci si fida? La scuola così com’è dovrebbe essere chiusa? Noi siamo nel tempo in cui abbiamo un bisogno di scuola come mai forse in tempi recenti, quant’è vero che son diminuiti altri luoghi tradizionalmente deputati all’educazione e alla socializzazione, gli oratorii, lo sport. È uno dei pochi luoghi all’aperto dove possano fare esperienza.

È chiaro che ho bisogno di un ‘esperienza di feedback, devo dare allo studente un riscontro. È essenziale non semplificare queste realtà mentre spesso a livello di riforme istituzionali non è rara questa tendenza a semplificare. Bisogna ripensare la scuola come un luogo di esperienza, come una scuola di pensiero.

Se noi pensiamo che la scuola sia in competizione con le macchine, portiamo la scuola al fallimento! La macchina elabora, non pensa; se ripensiamo alla scuola come un luogo di pensiero, che è multiplo, è creativo, questo è vincente. Qui nasce il nuovo, l’umano che ancora non c’è.